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Tifare Israele o Palestina non porta beneficio alle vittime: lasciamo fuori l’ideologia

Tifare Israele o Palestina non porta beneficio alle vittime: lasciamo fuori l’ideologia
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Come di fronte a una partita di calcio, in Italia si distinguono due tifoserie ben consolidate che vedono chi tifa per Israele contrapporsi ai sostenitori della Palestina. Non ci può essere nessun punto di contatto e fra questi due gruppi non vige nessun tipo di autocritica. Per i primi, quelli che difendono Israele, è l’unica democrazia in Medioriente ed è stata attaccata a sorpresa da una banda di terroristi. I fondamentalisti di Hamas, dicono, rappresentano tutti i palestinesi e per questo motivo, per questo senso generalizzato di essere sotto assedio, non ci può essere nessun dialogo.

Dall’altra parte, molti di quelli che difendono la Palestina cantano ancora il ritornello della “Palestina libera, Palestina rossa”, mettendo le speranze di una vittoria contro il nemico sionista nelle mani di Hamas che non ha nulla di comunista, socialista o laico come loro pensano. Per i palestinesi, la stragrande maggioranza di quelli che seguono gli eventi e vivono nella alienazione della mancanza di libertà, Hamas è diventata l’illusione di poter finalmente avere le proprie terre restituite: è il male minore, per loro. Infatti la maggior parte dei palestinesi non condivide i valori alla base dell’ideologia di Hamas, ma la vede come unica alternativa all’immobilismo dell’Autorità Nazionale Palestinese, impegnata a spartirsi soldi e benefici, e per questo diventa “la resistenza”.

L’immagine dei bulldozer di Hamas che tiravano giù le recinzioni di Gaza, quelle che da 17 anni relegano due milioni di persone in una prigione a cielo aperto, hanno fatto il giro di tutte le case e del mondo. Proprio da queste recinzioni e muri dovremmo partire, nell’assunto che non è possibile credere di star seminando la pace imprigionando una popolazione in un carcere gigantesco, mettendo i destini di giovani ragazzi e ragazze nel limbo dell’attesa della morte. Vivere a Gaza significa non avere speranze, non aver la libertà di muoversi – cosa che per gli israeliani è lecita, nonostante possano sentirsi limitati a causa della loro sindrome dell’assedio – e non avere nessuna prospettiva.

Da una parte, il governo conservatore e radicale – supportato dal peggior estremismo ebraico – di Netanyahu ha alimentato una retorica della paura, basata sull’idea che il nemico esterno – Hamas – fosse sempre li pronto ad attaccare. Non ha portato avanti nessun tipo di dialogo, nessuna trattativa e ha spinto i coloni israeliani a spingersi sempre più avanti in un gioco scaccia palestinese. Il governo di Gerusalemme si è venduto come il nemico dei fondamentalisti palestinesi e, di conseguenza, Hamas ha aumentato il suo potere e la sua forza attrattiva – sostenuto da Iran, Hezbollah e Russia – per vendersi come unico interlocutore palestinese e spodestare la OLP. A guardare ci sono i paesi arabi che hanno da sempre sfruttato per i propri interessi la causa palestinese per distruggere ogni tipo di dissenso interno, messo all’angolo come nemico della resistenza e del diritto dei palestinesi al ritorno.

Se non vogliamo cadere nel banale, facendo un torto alle vittime di questo ennesimo conflitto che lambisce la sponda sud del Mediterraneo, bisogna obbligatoriamente lasciare l’ideologia fuori e de-costruire i fatti, arrivando agli antecedenti che hanno portato a questo bagno di sangue. E tifare, come allo stadio, per l’uno e per l’altra, dandosi vicendevolmente a mezzo stampa dei terroristi, appiattendo il dibattito non porta beneficio a nessuna delle vittime. E banalizza una tragedia lunga 70 anni.

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