Prima o poi doveva accadere. Ed è, in effetti, accaduto non una, ma due volte nel corso dell’ultima settimana. Grazie, infatti, ad una dichiarazione dell’ex presidente Sebastián Piñera – a stretto giro di posta sorprendentemente confermata da Sergio Micco, già direttore dell’Istituto Nazionale per i Diritti Umani – il Cile ha finalmente cominciato a discutere del golpe. No, non quello del 1973, il cui 50esimo anniversario è stato (non da tutti e in molto controversi termini) celebrato lo scorso 11 settembre. Non quello del bombardamento della Moneta, della morte di Salvador Allende, dello stadio trasformato in prigione e centro di tortura, non quello delle “carovane della morte” e dei desaparecidos.

E neppure quello – lungo 17 sanguinosi e tenebrosi anni – dei Chicago Boys che, tra desapariciones e torture, all’ombra di una tirannia feroce, sperimentarono in carne viva le “magnifiche sorti e progressive” della libertà economica predicata da Milton Friedman e poi praticata – in anni successivi, in altre latitudini e con altri risultati – da Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

No, il golpe in questione è un altro. È, per la precisione, quello che, sia pur solo in forma di “tentativo”, si consumò in tempi molto più recenti, nel 2019. E che dalle cronache venne a suo tempo consegnato agli annali come “el estallido social”, l’esplosione sociale, ovvia conseguenza – dopo quasi un trentennio di democrazia recuperata, ma ancora in quel passato irretita – proprio della “illuminata” brutalità di quelle sperimentazioni. O, almeno, questo era quel che più o meno ovunque – sia pur ovviamente con molto diversi accenti, d’approvazione o di condanna – si andava fino a ieri dicendo, in un confronto molto più incentrato, come i fatti imponevano, sulla violenza della repressione che su quella (che pure ci fu) delle proteste e delle manifestazioni.

Per Sebastián Piñera – in quei giorni presidente della Repubblica alla testa d’un governo conservatore che di quelle sperimentazioni era, per molti versi, un molto emendato ma inequivocabile erede – quelle proteste e quelle manifestazioni furono, in realtà, “un tentativo di golpe non tradizionale”. E allo stesso modo, come sopra sottolineato, si è pochi giorni più tardi espresso anche Sergio Micco, in quell’anno direttore d’una istituzione – per l’appunto l’Instituto Nacional de Derechos Humanos de Chile – il cui compito era, tra le altre cose, proprio quello di salvaguardare il sacrosanto (ed umanissimo) diritto alla protesta che ogni vera democrazia garantisce.

Affermazioni ridicole? Alla luce dei fatti, sicuramente. Tanto che, per sottolinearne la ridicolaggine, basta citare quel che, con molto articolata e veritiera prosa, il medesimo Micco scrisse all’epoca del sunnominato “golpe non tradizionale” sul sito dell’INDH da lui diretto. “Le cause che motivano lo scoppio sociale – sostenne allora Micco, in sintonia con quella che, tra l’altro, i sondaggi rivelavano essere una molto maggioritaria opinione – sono ben precedenti ad esso. Le richieste sollevate riguardano la mancanza di garanzie in materia di diritti sociali, quali la salute, l’istruzione e la sicurezza sociale…”.

Se facile è comprendere quali siano i motivi che, alla ricerca d’una eroica immagine dei suoi ultimi quattro anni di presidenza, hanno spinto Piñera ad innalzare la bandiera del “golpe non tradizionale”, più misteriose (e per questo ancor più ridicole) sono le ragioni del ribaltamento d’opinione – un vero e proprio tuffo carpiato con capriola logica – del Micco. Il vero problema è però, a questo punto, non tanto la risibilità dell’assunto, quanto quello posto dalla frase che, non casualmente, ha aperto questo post. Per quale ragione tutto questo “prima o poi doveva accadere”? Per una molto semplice ragione: perché da molti anni ormai il “golpe non tradizionale” è diventato lo slogan, la formula magica con la quale si vanno coprendo, un po’ ovunque, le più varie e spesso cruente forme di criminalizzazione della protesta sociale e politica.

Il “golpe non tradizionale” è diventato l’arma preferita di tiranni, dittatori, dittatorelli e mezzi dittatori in cerca d’un definitivo diploma. A destra come a sinistra. Ed è certo che a sinistra – nella parte più cavernicola della medesima – questa litania ha anche, come dire, trovato una sua base storico-teorica o, se si preferisce, un ideologico colpevole. Padre di ogni “golpe non tradizionale” è, infatti, Gene Sharp, autore di un libro sistematicamente descritto come una vera e propria bibbia in materia, una sorta di Tavola della Legge a Sharp direttamente consegnata – sì, avete indovinato – dalla Central Intelligence Agency, così come, sul monte Sinai, il Padreterno fece con Mosè. Il libro è From Dictatorship to Democracy, è stato pubblicato nel 1993 ed elenca una serie di azioni non violente di massa – 198 in tutto – da praticare per minare alle basi regimi autoritari. Con le ultime due parole – regimi autoritari – che fanno da palese architrave al tutto.

La ragion d’essere delle azioni di cui sopra è, infatti, la presenza di un regime oppressivo. Senza oppressione non c’è azione che tenga. Il che questo significa: che la denuncia del “golpe non tradizionale” è, a conti fatti, anche una piena, quasi cartesiana, confessione. Contro di noi è in corso un “golpe non tradizionale”. Dunque, noi siamo una dittatura oppressiva. E chissà che, prima o poi, questa involontaria confessione non finisca per finalmente risalire a quello che, a conti fatti, fu il vero e luminoso inventore del “golpe non tradizionale”: Mohandas Karamchand Gandhi, universalmente noto come Mahatma Gandhi.

Di colpi di stato non tradizionali ce ne sono state, in questi anni, quantità industriali. Nelle “rivoluzioni colorate”, con al centro della scena il golpe di Maidan che nel 2014, in Ucraina, portò alla caduta del governo filo-russo di Viktor Yanukovych. Nelle varie “primavere arabe”. Nelle proteste delle donne iraniane. E poi a Cuba, nel Venezuela che fu del “comandante eterno” Hugo Chávez e che oggi è del suo apostolo, Nicolás Maduro. Per non dire del sempre più sordido caso del Nicaragua del nuovo Somoza Daniel Ortega, che di quei “golpe non tradizionali” ne sventa, in pratica, uno al giorno, insanguinando le strade e riempiendo le carceri.

Il caso cileno, in fondo, nella sua ridicolaggine non dimostra che questo: il progressivo estendersi, a destra come a sinistra, di questa pericolosa – e spesso mortifera – ondata di ipocrita imbecillità. Come fermare questa ondata? Come tornare a distinguere i veri golpe, che come funghi continuano a fiorire, dalle perniciose contraffazioni di quelli “non tradizionali? Creando un istituto che ne certifichi l’origine come si fa con i vini di qualità?

Lo chiedo – per disperazione, ben conscio della stupidità della richiesta – anche per ragioni personali. Leggendo le ultime dichiarazioni di Piñera sono infatti andato indietro – molto indietro – nel tempo. E mi sono scoperto colpevole. Correva l’anno 1960 e, insieme a molte altre migliaia di italiani scesi in piazza, fresco iscritto alla FGCI, per protestare contro il governo che il democristiano Fernando Tambroni aveva, in spregio allo spirito della Costituzione, formato in alleanza con i neofascisti del MSI. Ci furono scontri violenti e molti morti (che io, Vostro Onore, ancor oggi chiamo martiri). E, alla fine, Tambroni rinunciò. Fu, quello a cui partecipai, un “golpe non tradizionale”? Sono stato un golpista? Seguendo la logica di Piñera, sicuramente sì. E a questo punto devo sapere se – per dirla alla Fidel Castro – la Storia mi assolverà. Alibi non ne ho, ma ho molte attenuanti. Dopotutto, nel 1960 non avevo che 15 anni. Posso sempre appellarmi alla clemenza della corte.

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