In vista del 50esimo anniversario del colpo di Stato in Cile, leggo e rifletto. Essendo stato l’unico italiano preso prigioniero dai militari in quei giorni convulsi del settembre 1973, mi capita di essere chiamato a dibattiti o interviste. Questa volta non voglio basarmi solo sui ricordi personali già consolidati, ma approfondire alcuni interrogativi storici e fare i conti con le opinioni correnti attualmente.

Le divaricazioni sono ancora (o di nuovo?) profonde, e a volte si basano su equivoci paradossali. Non so prevedere quanto e come se ne parlerà in Italia, ma ho constatato anche di recente quanto sia rimasta cristallizzata nel tempo la percezione che a sinistra avevamo subito dopo il settembre 1973, la favolistica del pueblo unido jamás será vencido. Anche di recente ho letto, persino in titoli di grandi giornali e non solo sui social, che Allende era stato ucciso dai generali golpisti. Alle mie obiezioni – che è accertato il suicidio – si è risposto che poco cambiava. Eh no, la cosa cambia, il suicidio era premeditato.

Nelle sue memorie, Carlos Altamirano (leader del Partito Socialista ai tempi) dice che molte volte ne avevano discusso, e che la sua posizione era che in caso di golpe Allende doveva rifugiarsi in un luogo sicuro per dirigere la resistenza, mentre Allende insisteva che sarebbe rimasto nel Palazzo presidenziale e ne sarebbe uscito morto. La narrazione cristallizzata e favolistica immagina militari strumento della Cia e degli Usa che abbattono un governo che procede legittimato nella strada delle riforme sociali e socialiste. La realtà è stata molto più controversa e complessa. Il governo di Allende non aveva la maggioranza né in Parlamento né nel paese. Il sistema presidenzialista cileno di allora gli dava un mandato di sei anni, fino al 1976, pur avendo preso solo il 36% alle elezioni (allora a turno unico).

Alle elezioni politiche del marzo 1973 Unidad Popular era andata un po’ meglio, 44%, ma all’opposizione Dc e destra si erano unite ed avevano vinto. Non avevano i due terzi del Parlamento per far cadere il Presidente, ma bloccavano le leggi e intanto il paese era a pezzi. I ceti medi erano in rivolta contro il governo, con scioperi a oltranza di commercianti, camionisti, professionisti. Gli studenti erano spaccati e anche tra gli operai c’era una parte antigovernativa (minatori). Il “Poder Popular”, fabbriche occupate, comitati popolari, terre espropriate dal basso, era forte e spaventava la borghesia, ma non era in grado di prevalere. L’inflazione era alle stelle e mancavano i rifornimenti. Tre giorni prima del colpo di Stato di Pinochet, il generale Prats, fino a pochi giorni prima Capo dell’Esercito, democratico fedele alla Costituzione fatto dimettere dalle pressioni reazionarie, incontra Allende. In quella conversazione le opzioni sono l’abbandono provvisorio del paese da parte del Presidente o la convocazione di un referendum di fiducia o sfiducia al governo.

Allende dice a Prats, come poi ad altri nei due giorni successivi, che è consapevole che quel referendum lo perderà, ma sarebbe una uscita onorevole e il modo per evitare una guerra civile. Questa era la situazione. E’ bello che rimaniamo affezionati ai valori di giustizia sociale e ai movimentismi presenti nei mille giorni tra Unidad Popular e Poder Popular, è bello che Allende resti nel tempo un personaggio di valore e di riferimento, ma è evidente che l’esperienza non aveva funzionato. In che misura è fallita per contraddizioni interne e settarismo schematico, in che misura è stata “solo” sconfitta dalla forza delle armi: questa ancora è una discussione aperta.

Di ben altra natura rischia però di essere la narrazione o la discussione in Cile, dove attualmente prevale un vento di destra, sorto da un paio d’anni e che finisce per condizionare retrospettivamente anche il giudizio su Allende e Pinochet. (Secondo alcuni sondaggi l’approvazione o comprensione nei confronti del Colpo di Stato del 1973 è risalita fino a sfiorare il 40%.) Ha preso piede un cerchiobottismo che per la verità non era mai del tutto sparito, e che serve al cosiddetto centrodestra cileno come giustificazione esistenziale. Il Colpo di Stato viene visto come un triste passaggio, o anche come una tragedia, di cui tutti gli attori del 1973 sono corresponsabili. Tutti. La ex “presidenta” Michelle Bachelet protesta con una brillante frase: “Certo che ci sono stati errori, ma non potete confondere errori ed orrori”.

Poche ore dopo il bombardamento del Palazzo Presidenziale, quelli che avevano accompagnato Allende si arresero ai militari: 24 di loro furono torturati e poi uccisi. Torturare e uccidere chi si arrende non si fa neanche in guerra. Si può anche dire che vi furono responsabilità di tutti, ma come si può mettere sullo stesso piano chi prende il potere, e da quel potere uccide e tortura, con chi non è riuscito a coordinare governo movimenti e alleanze e il potere si appresta a lasciarlo? Ho letto la parte finale del libro postumo di Patricio Aylwin, ho seguito l’intervento del Rettore dell’Università Carlos Pena nel commentarlo, ho letto il libro recente di Daniel Mansuy su Allende. Le critiche all’incapacità di Unidad Popular di gestire la crisi nel 1973 sono fondate. Ma sembra quasi che il Colpo di Stato sia stato una conseguenza inevitabile.

Un terremoto fa crollare case costruite male, e giustamente si discute di come sono state costruite le case. Ma il Colpo di Stato “di” Pinochet (sul quale è salito Pinochet all’ultimo) non è stato un inevitabile disastro naturale, ma la realizzazione di una volontà umana e politica. Non era la unica possibile legittima difesa… di cosa, poi? I militari avevano già, per una legge voluta da Allende, il diritto-dovere di perquisire ovunque e sequestrare armi. Le libertà politiche e di stampa erano piene. Potevano anche non credere al referendum di Allende che lo avrebbe poi fatto cadere, potevano anche non credere alla proposta democristiana delle dimissioni dei parlamentari per poi far dimettere il Presidente. In ogni caso si sarebbe tornati al voto e Unidad Popular non avrebbe vinto. Quel tipo di golpe invece è stato fatto per prendere il potere e tenerselo. Certo la Cia, certo gli Usa e la Guerra Fredda, certo la borghesia, ma i militari che hanno fatto il Colpo di Stato sono stati soggetto, non strumento.

L’idea che mi sono fatto, leggendo la ricostruzione di Alfredo Sepulveda (altro libro recente), è che gli altissimi generali avendo iniziato a prospettare il golpe non solo si sono autoconvinti di svolgere una missione storica, ma erano anche molto spaventati. Pensavano che se si fossero fermati sarebbero stati come minimo destituiti, o anche uccisi. La paura ha radicalizzato il golpe, ha radicalizzato l’odio e la crudeltà. E poi dopo, anche solo un giorno dopo, bisognava difendersi dal rischio di pagare per i delitti commessi. “Sento che i miei ex compagni d’armi non recupereranno mai più nella loro vita la pace dei loro spiriti, attanagliati dal rimorso per gli atti in cui si vedranno fatalmente coinvolti e per l’angustia di fronte alle ombre della vendetta, che li perseguiteranno costantemente”. Così il generale antigolpista Prats racconta i suoi sentimenti e pensieri poche ore dopo il golpe. Non è dato sapere quanti rimorsi abbiano provato, certo sapevano che alla lunga nessun tribunale minimamente terzo poteva assolverli.

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