La sentenza della Corte di Cassazione che riconosce il dovere sociale di retribuire i lavoratori con un salario dignitoso, anche a prescindere dai contratti, e il parere della Giunta del Cnel secondo il quale il salario minimo sarebbe inutile in un paese dove oltre il 90% di lavoratori sarebbe coperto da contratti, sono i due poli di un conflitto giuridico, economico e politico che viene da lontano. Il conflitto non è tra magistratura e politica, come hanno sempre spiegato i mass media e i politici di palazzo dagli anni di Craxi ad oggi, ma tra due concezioni opposte dei diritti e dei poteri, che attraversano sia la magistratura, sia la politica, sia i sindacati e le organizzazioni della società civile.

La prima concezione è quella democratica e progressista contenuta nei principi della Costituzione e definita nella sua forma più rigorosa nell’articolo 3. Che riconosce che l’uguaglianza e le libertà formali dei cittadini diventerebbero reali solo quando la Repubblica rimuovesse le barriere della diseguaglianza sociale.
La concezione opposta è quella affermatasi a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso sotto la spinta della controrivoluzione liberista di Reagan e Thatcher, poi diventata egemone in tutte le cosiddette democrazie liberali. Secondo questa concezione il cittadino è già un soggetto economico libero e quindi le sue sono tutte scelte consapevoli nella competizione economica capitalista. Se poi uno di questi cittadini non ce la fa, vuol dire che non ha avuto merito sufficiente e che il mercato l’ha bocciato.

La concezione costituzionale del lavoro aveva prodotto il principio dei “diritti indisponibili”. Cioè il salario, l’orario, la salvaguardia della salute, la dignità, non potevano essere totalmente a disposizione della contrattazione. Che non poteva fare accordi al ribasso rispetto ai diritti costituzionali e di legge. Questo principio ha accompagnato lo sviluppo della cosiddetta “legislazione di sostegno” a favore del lavoro. Perché si partiva dal principio della diseguaglianza reale, cioè dal fatto che il lavoratore e l’imprenditore non siano uguali quando stipulano il contratto di lavoro. Perché l’imprenditore è economicamente più forte del lavoratore e può imporre le sue condizioni. Quindi compito del legislatore e della politica era quello di produrre un diritto più a favore del lavoro che dell’impresa, proprio per riequilibrare le diseguaglianze reali.

I due principali risultati di questa impostazione politica furono lo Statuto dei Lavoratori e la scala mobile dei salari. Con essi si garantiva una base da cui poteva svilupparsi in alto la contrattazione, mentre nessun accordo tra le parti sarebbe potuto scendere più in basso.

Come si sa lo Statuto dei Lavoratori è stato progressivamente svuotato e colpito da tanti interventi legislativi, l’ultimo quello di Renzi nel 2014. E la scala mobile, cioè la indicizzazione automatica dei salari rispetto all’inflazione, è stata prima colpita dal governo Craxi con il suo decreto del 1984, poi erosa da accordi sindacali in perdita, infine abolita definitivamente dal governo Amato nel 1992. Dalla legislazione a sostegno dei lavoratori si passava a quella sostegno degli imprenditori. E l’ultimo governo Berlusconi stabiliva persino che i contratti avrebbero potuto derogare rispetto alle leggi.

Così la concezione democratica e progressista del lavoro veniva travolta da quella neoliberale.

Lo smantellamento dei diritti e la riduzione dei salari veniva presentato come una scelta di libertà. Il posto fisso era schiavitù, meglio lasciare il lavoratore libero di passare da un contratto precario all’altro. E il salario fisso, magari indicizzato e garantito a tutti, veniva accusato di danneggiare la contrattazione sindacale, che si sarebbe molto più sviluppata senza di esso. Così l’Italia è il solo paese dell’Europa e dell’Occidente che abbia visto diminuire i salari reali. In tutti gli altri paesi i salari sono stati compressi, ma solo in Italia oggi un operaio è più povero di trent’anni fa.

Un risultato sociale simile l’Italia lo ebbe solo nei tempi del fascismo. Ma allora c’era la dittatura e chi voleva un sindacato libero finiva in galera.
Invece in Italia la distruzione dei diritti e la frana dei salari è avvenuta con il consenso dei gruppi dirigenti della Cisl, della Uil e, dopo molti scontri interni, anche di quelli della Cgil.

In Italia il liberismo contro i lavoratori è stato scambiato con la “concertazione” tra governo, sindacati, imprese . Uno scambio che ha prodotto imbrogli come la riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale”, cioè sconti fiscali alle imprese, in parte distribuiti ai lavoratori, e finanziati dalle tasse di lavoratori e pensionati. Una partita di giro in perdita al posto di veri aumenti delle retribuzioni. Abbiamo avuto una montagna di accordi e contratti, sotto i quali però sono sprofondate le condizioni reali dei lavoratori. Per questo oggi il Cnel può vantare che l’Italia sia uno dei paesi con maggiore copertura contrattuale. Mentre vi sono milioni di lavoratori con paghe indegne di un paese civile.

La legge sul salario minimo, che una serie di forze sindacali e politiche fuori dal palazzo propone con 10 euro all’ora indicizzati, è vissuta con estrema ostilità da parte della Confindustria e dei suoi politici al governo e all’opposizione, perché non solo aumenterebbe la retribuzione di milioni di persone, ma affermerebbe che la contrattazione deve migliorare le condizioni di lavoro, non peggiorarle.

Una vera legge sul salario minimo sarebbe la riaffermazione dei principi della Costituzione e una prima sconfitta del liberismo, non solo di quello politico, ma anche di quello sindacale.

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