di Sara Gandini e Paolo Bartolini

Paola di Cori, nel primo capitolo del libro Arte e pratica della pazienza (Novalogos edizioni), sottolinea una cosa importante: con la nascita della medicina delle epidemie, attenta alle malattie che creano contagio, nasce una nuova coscienza medica interessata a mettere in piedi apparati di controllo e nuovi protocolli che permettano un aumento della potenza politica dello sguardo medico. Si inizia così a diffondere una visione che separa sempre di più la malattia dal malato.

La conseguenza è che chi soffre non ha voce in capitolo, ma viene consegnato allo sguardo e alla parola di una medicina settoriale, sovente scollegata dalla complessità del vivente nei suoi contesti di appartenenza. Il paziente viene tacitato e considerato solo come portatore di un insieme di sintomi e alterazioni da classificare: la tecnologia medica individua, nomina e predispone i suoi protocolli di intervento. I “dottori” acquistano un immenso potere, soprattutto quelli altamente specializzati, che si dedicano a una precisa patologia, diagnosticata con le tecniche più avanzate, riguardante quello specifico organo al quale dedicano la loro autorità.

L’iper-specializzazione e la tecnologia, a ben vedere, hanno esautorato prima i pazienti e poi i medici, in funzione di uno specialismo funzionale agli indirizzi dei decisori di salute pubblica alle prese con scelte strategiche vincolate a rigidi criteri di economicità. E così, ad esempio, si punta soprattutto sulla prevenzione secondaria, grazie alla quale dovremmo diagnosticare i tumori quando sono ad uno stadio non avanzato, ma quello che succede di fatto è che spesso questi screening aumentano la probabilità di anticipare la diagnosi senza garantire tuttavia una riduzione della mortalità. Si tratta del ben noto rischio di sovradiagnosi/sovratrattamento di molti screening che aumenta la probabilità di diventare pazienti/clienti delle aziende farmaceutiche, ospedaliere, assicurative…

Allo stesso tempo non si investe nella prevenzione primaria, che invece ha lo scopo di ridurre il rischio di avere un tumore, agendo principalmente sulla trasformazione degli stili di vita. Ovviamente si tratta di strategie che implicano tempi molto più lunghi e si configurano come una perdita economica anche per lo Stato nel breve periodo. Allo stesso modo – ricordando quanto avvenuto tra il 2020 e il 2021 – è stato più semplice imporre a tutta la popolazione lockdown, chiusure delle scuole, vaccini sperimentati molto velocemente (senza monitorare accuratamente gli effetti avversi), piuttosto che investire per tempo sulla medicina di prossimità, sull’assunzione e formazione del personale sanitario ospedaliero, sulle strutture migliori per gli anziani, su scuole dignitose e funzionali all’educazione dei giovani e alla loro crescita in umanità. In particolare lo specialismo e una cultura di salute pubblica di mercato impediscono l’attenzione e gli investimenti necessari per mettere in campo strategie di lungo periodo per la prevenzione mirata. Per non parlare della mancanza di cure personalizzate, quelle che dovrebbero rimettere al centro la relazione medico-paziente.

La qualità della relazione viene sostituita da una comunicazione e gestione autoritaria in cui le istituzioni e lo Stato devono imporsi in modo che le decisioni vengano prese senza perdite tempo. A questo proposito è interessante la riflessione di Pierluigi Cervelli che viene invitato da Paola di Cori a riflettere sullo sguardo medico e sulla disciplina politica dei corpi partendo dagli scritti della rivista del governatorato fascista di Roma. Cervelli sostiene, in modo interessante e provocatorio, che il pensiero fascista si trovi prima di tutto nei testi medici e sia costituito da vari elementi tra loro intrecciati: l’ereditarietà, la degenerazione, il contagio, la contaminazione, l’epidemia. Sono elementi applicati non tanto al dominio corporeo, ma al campo morale, o meglio biologico-morale. Si tratta di una visione che attribuisce al singolo la responsabilità della sua malattia grazie a giudizi moralistici, per cui l’alcolista ad esempio avrà più probabilità di trasmettere il vizio ai figli che quindi porteranno iscritto nel proprio corpo il vizio dei genitori, tanto che si costruiscono progetti nelle scuole per individuare i bambini portatori di queste eredità. Nascono bollettini che registrano numeri crescenti di bambini “anormali” inviati ai preposti specialisti e politiche discriminatorie che disegnano percorsi separati segnando il destino di intere generazioni. Le responsabilità della società, riguardo alle ragioni multidimensionali che portano a depressione e alcolismo, spariscono del tutto.

Una cosa molto simile è accaduta con la gestione confusa e criminalizzante della pandemia, per cui si colpevolizzavano runner e bambini mentre nessuna delle promesse dei governi sulla necessità di potenziare la sanità pubblica è stata mantenuta.

Il sapere specialistico, se viene separato da un senso globale del bene comune, viene catturato facilmente e messo al servizio di progetti di cortissimo respiro. Ripensare la medicina in senso nonviolento e partecipato ci sembra, dunque, una priorità che si affianca alla resistenza a qualunque forma di interventismo spregiudicato che voglia imporsi facendo leva sulle tante emergenze scatenate dal passaggio epocale che stiamo attraversando.

In occasione della settimana di prevenzione del cancro, Sabato 14 ottobre 2023 alla Casa delle donne di Milano (Via Marsala 10) ci sarà un pomeriggio di studio a partire dal libro ‘Arte e pratica della pazienza. Intorno al pensiero di Paola Di Cori sul corpo e la malattia’, a cura di Marilena Fatigante e Clotilde Pontecorvo. Dalle 15:00 alle 17:00 Marilena Fatigante, Paolo Borghi, Elena Canavese, Sara Gandini e Chiara Martucci condurranno una conversazione sul libro a partire da diversi sguardi e prospettive disciplinari. Info: bibliomediateca@casadonnemilano.it

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