di Sara Gandini e Paolo Bartolini

Tralasciando momentaneamente le ricadute occupazionali, e l’intensificarsi del controllo sugli umani mediante algoritmi, la questione della cosiddetta “intelligenza” artificiale (e la sua ricezione massmediatica) esemplifica benissimo la componente de-politicizzante insita nel culto delle nuove tecnologie. Mentre il mondo va a rotoli, non passa giorno senza che si innalzi al cielo un’ode alle macchine di ultima generazione.

I tecnoentusiasti – nonostante qualche sfumata preoccupazione avanzata dagli inventori dei nuovi modelli di AI – annunciano sistemi artificiali che saranno sempre più capaci di autonomo apprendimento, gradualmente svincolati dagli input di programmazione degli umani, ecc. Insomma, si prova a minimizzare la sostanziale differenza tra artefatti e umani (assimilando sempre più la vita organica ai funzionamenti artificiali).

La retorica dell’innovazione a ogni costo vuole farci credere che le macchine “intelligenti” potrebbero, un giorno, colmare lo iato che le separa dagli organismi coscienti. Negli ambienti transumanisti da tempo è messa in discussione la differenza tra il vivente e l’artificiale, alimentando così la speranza in una vita “aumentata” (più duratura, performante, efficiente) secondo le attese della nostra era prestazionale. Tuttavia, ed eccoci al punto, a parlare così sono ancora e sempre determinati esseri umani. È abbastanza evidente che l’obiettivo di questa propaganda pro-AI sia quello di far accettare, con stupore e benevolenza, la rottamazione dell’umano in alcune aree strategiche della società: ricerca e sviluppo, produzione, “conoscenza” in senso lato. Una sostituzione operata da tecnologie raffinate e dotate di un’enorme potenza di calcolo. Là dove, sul piano sociale e politico, non sono concessi neppure scostamenti minimi dai diktat del capitalismo neoliberista, il mito delle macchine pensanti, intelligenti, curiose e creative si insinua per affermare che la creatività stessa può esercitarsi solo dentro la cornice data di riferimento: quella del funzionamento utilitaristico e dell’estrazione di plusvalore. Lo slancio utopico verso la giustizia sociale ed ecoclimatica evapora, si tratta di “lasciar fare” al sistema: saprà regolarsi prima o poi, e con l’intelligenza artificiale ci offrirà soluzioni per evitare la catastrofe.

Fantasie buone per rimandare di qualche anno una presa di responsabilità collettiva già notevolmente in ritardo rispetto alle urgenze del presente.
I solerti funzionari del tecno-capitalismo non considerano che le macchine non hanno un corpo, non sono impegnate in situazioni reali dove ne va del senso delle loro azioni, non si organizzano a partire da dinamiche vitali intensive e soprattutto non hanno incontrato come noi il fantasma della propria mortalità (il primo sapere che ci rende pienamente umani).

Sono affascinanti e non di rado utilissime – pensiamo alle tecnologie che aiutano i chirurghi a fare cose straordinarie, persino a distanza – ma che significato può avere magnificarne le doti assimilandole ai processi della vita organica e culturale?

La sensazione è che si voglia presentare come tecnologia dal volto umano una potentissima congerie di funzionamenti messa al servizio esclusivo degli interessi di mercato. Rivendicare, come qui facciamo, la differenza tra vivente e artefatti non deve condurre a demonizzare l’innovazione tecnica e scientifica, quanto piuttosto incoraggiarci a valutare scoperte e nuovi dispositivi alla luce di un criterio di compatibilità con le dinamiche delicate ed ecologiche dell’esistenza su questo pianeta. Siamo dinnanzi, in definitiva, a un grande compito educativo e filosofico per questo nuovo millennio: accompagnare gli umani a un ripensamento consapevole dei loro sogni smisurati di potenza e immortalità, liberando nuove forme di convivenza sapiente e di pensiero critico. Da esse, infatti, dipendono azioni finalizzate al buon vivere, alla ridistribuzione delle ricchezze, al rispetto dell’ambiente, all’ampliamento dei diritti sociali e civili, alla riconversione armonica dell’economia e delle tecnologie in senso ecologico. Perché i problemi complessi richiedono un’intelligenza incarnata e non si riducono mai a una moltitudine, per quanto immensa e sofisticata, di dati da elaborare.

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