di Sara Gandini e Paolo Bartolini

Chi, come noi, ritiene ci sia molto da imparare da questi anni – quelli del Covid-19 e delle risposte politiche all’emergenza, guerra inclusa – ha sperimentato un acuto senso di amarezza e desolazione constatando la difficoltà di aprire un serio dialogo a sinistra su quanto è accaduto.

Questo mancato incontro, a nostro avviso, è dovuto almeno a due diversi motivi. Sicuramente, e questo è il primo punto, non poche figure appartenenti a quest’area hanno paradossalmente e forse strumentalmente bollato il dissenso contro la governance dell’emergenza come frutto di pulsioni liberiste-populiste, di natura egoistica. Non sappiamo se si tratti di una svista o di una lettura pigra degli eventi, o di un capovolgimento narrativo voluto, ma abbiamo visto molti militanti di sinistra, persino gruppi anarchici, produrre banalizzazioni sconcertanti.

Chi voleva ragionare sugli effetti delle chiusure sulla società, nei termini di ampliamento delle diseguaglianze e quindi delle sofferenze per l’intera collettività, così come chi ha sollevato il problema delle discriminazioni con l’arrivo del green-pass, è stato qualificato come integralmente “reazionario” senza alcun approfondimento delle obiezioni sollevate.

Ma non c’è solo questo. Noi individuiamo anche un’altra dinamica profonda, che interessa strutturalmente le cosiddette sinistre, quelle riformiste subalterne al neoliberismo e quelle antagoniste minoritarie. Crediamo che, per spiegare i molti errori compiuti in merito alla questione sindemica, sia necessario invocare un meccanismo di compensazione psicologico.

Nell’opinione pubblica, nelle periferie, nelle fabbriche e ovunque le persone sentano nella carne il morso delle diseguaglianze, giustamente vi è scarsa disponibilità a dare fiducia a personaggi e partiti squalificati da anni di arretramento continuo su tutte le lotte fondamentali per la classe lavoratrice e per i ceti popolari. Ecco allora che, quasi fosse un pensiero magico, coloro che sanno più o meno (in)consciamente di aver accettato le regole di un gioco truccato, senza riuscire minimamente a mitigare le ingiustizie crescenti del sistema, incluse quelle prodotte dalla gestione della pandemia e dalle successive emergenze, si sono trovati a immaginare di poter instaurare una sorta di socialismo sanitario dall’alto, invadente e moralista, finalizzato a “salvare” corpi e anime anche contro la volontà degli stessi.

Gli eroici furori “progressisti” sono tornati in superficie nella forma di una protezione totale della società, a suon di decreti e dispositivi discutibili che mascherano appena – nella loro inefficacia prevalente – i tagli terribili inflitti alla sanità da qualunque compagine di governo. La conclusione che traiamo da questa riflessione è la seguente: laddove la sinistra perde la sua vocazione alla trasformazione profonda della realtà, non resta altro che ostentare una cura della vita collettiva impregnata di moralismo e rispolverare la furbizia biopolitica dello Stato, che controlla i corpi durante le fasi acute di una crisi, senza fare nulla per prevenirla e affrontarla in modo costruttivo.

Di una medicina integrata e nonviolenta avremmo bisogno, e di investimenti massicci per la sanità, affinché salute e democrazia possano sempre andare di pari passo, cancellando gradualmente, e definitivamente, la logica del profitto nel campo dei beni comuni. Un pregevole seminario residenziale organizzato questo settembre da LABOSS (Laboratorio su salute e sanità), con presenti personalità rilevanti come Nicoletta Dentico e Silvio Garattini, nonostante un’impostazione complessiva assai condivisibile, centrata sull’urgenza di proteggere il servizio sanitario nazionale dall’attacco a cui è sottoposto da anni e sulla necessità di rilanciare la ricerca e l’intervento pubblici per limitare lo strapotere delle case farmaceutiche, segnala ancora la difficoltà, e persino la ritrosia, a esprimere parole nette e inequivoche sugli errori fatti dalle istituzioni nella gestione autoritaria della pandemia/sindemia.

Si rallenta così il cammino verso la riapertura di un dialogo trasversale che tenga conto del nesso marcato che esiste, in questa fase storica, tra privatizzazioni selvagge, uso intensivo della propaganda nei mezzi di informazione di massa e impiego della forza (e del ricatto) per uniformare le risposte delle popolazioni alle emergenze. Crediamo che da questa esitazione a raccontare l’insieme degli eventi che hanno segnato questo triennio dovremmo ripartire, per non frammentare ulteriormente la resistenza al neoliberismo di guerra.

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