Ancora pochi giorni e Pedro Sánchez sarà nuovamente premier, una riconferma che rende indolore la sconfitta del leader socialista nelle elezioni dello scorso luglio. È sottile la linea di confine tra il merito per una rimonta inattesa e le mancanze altrui: Alberto Núñez Feijóo, capo dei conservatori, ha pagato a caro prezzo la presenza ingombrante di Vox. L’ombra di Santiago Abascal, ultrà di destra che vede di buon occhio il sovravismo di Giorgia Meloni, si è rilevata pesante, al punto da offuscare ogni barlume di speranza dei populares.

Se Giorgia Meloni è riuscita ad imporsi senza difficoltà alla guida della coalizione italiana, l’alleato Abascal ha rappresentato la zavorra politica che il moderato Feijóo, investito del mandato dal re Felipe VI, ha faticato a trascinare nel corso di queste settimane.

Il leader dei Populares in realtà non è mai sembrato in partita, il gioco delle alleanze gli è completamente sfuggito di mano. Tanto da non riuscire ad imbastire nemmeno una interlocuzione formale con gli autonomisti: del resto come spiegare ai partiti regionali – da sempre determinanti nella formazione degli esecutivi – che un semplice pizzico sulla pancia è sufficiente a superare antiche contrapposizioni e livori con Abascal, il centralista per eccellenza? Sedersi al tavolo con Vox significava cancellare con un solo colpo di spugna trent’anni di conquiste politiche, l’ultradestra non ha mai fatto mistero dei suoi obiettivi: revisione del regionalismo in favore del rilancio della centralità dello Stato, soluzione muscolare per la ‘questione catalana’, drastico ridimensionamento dell’uso delle lingue regionali nella scuola e nella cosa pubblica. Posizioni, come si vede, inconciliabili.

Eppure è proprio sul terreno spagnolo che un giorno non lontano potrebbero manifestarsi spigolosità e contrasti all’interno della coalizione della destra italiana. Giorgia Meloni trova nelle soluzioni di Santiago Abascal un punto di riferimento, un approdo sicuro. Matteo Salvini, invece, non ha mai risparmiato ammiccamenti con il movimento indipendentista catalano, nel nome della libertà dei popoli.

La forma dello Stato è il campo minato che ha fatto conoscere alla Spagna lo stagno dell’immobilismo, trascinandola fino all’abisso della disgregazione culturale e territoriale. Quando sarà chiamata a confrontarsi sul rapporto tra Stato e regioni, sulla fuga in avanti delle regioni più ricche che Calderoli prospetta nel suo progetto di riforma, la destra italiana potrebbe implodere. Certo in Italia una questione linguistica non esiste, in Spagna è invece tema centrale, da sempre.

Negli ultimi giorni una riforma del regolamento del Congresso di Madrid consente l’uso del basco, del catalano e del galiziano nelle sessioni parlamentari. Tuttavia la ferma opposizione della destra ha portato ad un paradosso, in occasione degli interventi in euskera – ostica lingua di origine pre-indoeuropea – da parte dei deputati baschi, i parlamentari di destra o abbandonano l’aula oppure ascoltano i colleghi senza fare uso degli auricolari per l’interpretariato. Come dire, le parole della parte avversa possono anche cadere nel vuoto.

Le vertenze linguistiche rimangono aperte, come le ferite sulle ultradecennali questioni territoriali. Tutto lascia presagire che l’assetto dello Stato sarà al centro del dibattito nella nuova legislatura in Spagna, forse la causa scatenante delle tensioni nel centro-destra italiano.

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