Che diventasse un figurino da cerimoniale, poco più che un maestro di corte, simbolico, decorativo, forse lo temeva soltanto qualcuno in Assemblea costituente. Ma apparve sin da subito chiaro che il Presidente della Repubblica era in realtà destinato a essere ben di più, nel nuovo ordine italiano. A cominciare da quel colpo di testa di Einaudi, nel ’53, con l’incarico di governo a persona non gradita al grande padre della Dc, partito di maggioranza. Sin da allora è stato facile dire cosa il Presidente della Repubblica non è, mentre è rimasto sempre difficile dire cosa in realtà egli è.

Le norme della Costituzione, così vaghe, non aiutano, anzi. Qualcuno ha parlato di «amorfismo istituzionale»: un Presidente liquido – non se la prenda Bauman –, che prende in concreto la forma che il contesto politico gli offre (e gli chiede) in un dato tornante delle vicende repubblicane. E d’altra parte è solo così che funziona. Occorre infatti consentirgli di «indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali» (Corte cost., sent. 1/2013). E, per fare questo, serve un Presidente agile, non ingessato in confini istituzionali rigidi.

Ne deriva che ogni presidenza è una storia a sé. L’amorfismo di cui si parlava genera diverse morfologie presidenziali, che derivano da un lato dal contesto politico e dall’altro – dato non secondario – dalla personalità del Presidente. Pur nei confini tracciati dalla Costituzione, ogni Presidente incarna un’esperienza unica – come uniche sono le circostanze che ne hanno accompagnato il mandato –, una sorta di hápax legómenon, una parola detta una sola volta, che tuttavia consente uno sviluppo e un approfondimento nella comprensione del ruolo del Capo dello Stato.

Da questo punto di vista, Giorgio Napolitano supera tutti. La sua presidenza ha offerto una inconsueta molteplicità di motivi di riflessione, studio, approfondimento, confronto, tanto che la letteratura che se ne interessa è stata da subito alluvionale, e non c’è dubbio che continuerà ad esserlo.

Per fermarsi a qualche riferimento noto anche al grande pubblico: il tema, assai scivoloso, del doppio mandato, con la rielezione nel 2013; il conflitto con la Procura di Palermo sulle intercettazioni, approdato ad un giudizio della Corte costituzionale; il suo intervento nella crisi dell’ultimo Governo Berlusconi e la nomina di Monti, senza scioglimento delle Camere, nel 2011; la nomina di un Comitato di saggi per costituire una piattaforma programmatica per il nuovo Governo, nel 2013; l’esercizio del potere di grazia al di fuori di ragioni essenzialmente umanitarie, come sembrava indicare la Corte costituzionale in una sentenza del 2006; e così via.

Naturalmente, qui non si può che limitarsi a questi rapidi cenni, e, per chi volesse, rinviare ai ricchissimi contributi della dottrina su ciascuno di questi specifici aspetti. Forse, vale la pena soltanto spendere un’ultima parola a difesa dalle accuse di forzatura del sistema parlamentare che da qualche parte furono mosse al Presidente Napolitano, quando ottenne le dimissioni dal Presidente Berlusconi e conferì l’incarico a Mario Monti senza passare per nuove elezioni. Quella che allora parve una forzatura – principalmente a motivo della distorsione ottica che l’assestarsi del sistema politico su certe formule, nei precedenti (quasi) venti anni, aveva prodotto – fu invero niente altro che l’estensione massima del ruolo presidenziale nel sistema, senza tuttavia che ne fossero rotti gli argini costituzionali. Viene in soccorso la nota formula coniata da Giuliano Amato: i poteri del Presidente della Repubblica sono a fisarmonica. E lì la fisarmonica si espanse al suo massimo.

Questo ci dice qualcosa su una delle principali virtù della nostra forma di governo parlamentare, che è la sua elasticità. In un suo scritto, nel 2013, Roberto Bin suggeriva di non guardare alle forme di governo con le lenti della geometria classica, con la sua presunzione di misurare la realtà, bensì con quelle offerte dalla topologia, quella branca della matematica moderna che studia i fenomeni dell’omeomorfismo, ossia la possibilità che le forme geometriche si trasformino, subendo una deformazione senza strappi. Il triangolo Presidente-Governo-Parlamento può variare senza smettere di essere un triangolo, insomma. Ed è proprio quello che è successo con la presidenza Napolitano.

Non è detto che anche altre forme di governo abbiano la stessa capacità di adattamento (e resistenza). Altre formule, cui pure spesso si guarda con attenzione, presentano caratteri più rigidi, poco inclini ad omeomorfismi, con un rischio maggiore di ‘rompersi’ alla prova di estensioni, ritrazioni, rimodulazioni. Certo, forse queste stesse formule sono in grado (ed è pur da vedere) di garantire maggiore stabilità di governo, ma la stabilità di governo è solo «un obiettivo costituzionalmente legittimo» (Corte cost., sent. 1/2014), dunque non costituzionalmente necessario, e certo non può chiedere il sacrificio della tenuta democratica del sistema nel suo complesso.

Su questo bisognerà riflettere attentamente, anche avendo bene in mente l’esperienza della presidenza di Giorgio Napolitano, senza farne uno scontro politico e ideologico. Napolitano lo aveva segnalato più volte, pur insistendo sulla opportunità di riforme, e anche di riforme costituzionali: «Volere il cambiamento, ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta lontano» (Discorso di insediamento, 2013).

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