Per il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che pure a luglio aveva detto di non essere contrario al salario minimo, “ci sono le condizioni per affrontare e risolvere il tema del lavoro povero e di un salario dignitoso rafforzando i contratti collettivi nazionali“. Il numero uno uscente di viale dell’Astronomia sembra però dimenticare che 7,7 milioni di lavoratori hanno un contratto firmato dalle maggiori sigle datoriali e sindacali – non “pirata” insomma – ma da anni ne aspettano il rinnovo. Con un aumento cumulato dei prezzi che negli ultimi 24 mesi, tra pandemia e guerra, è stato intorno al 17%, significa che un terzo degli occupati sta subendo una imponente perdita di potere d’acquisto con inevitabile impatto sui consumi. Nel comparto del terziario e servizi, in cui un part time diffusissimo aumenta di molto il rischio di ritrovarsi tra i working poor, i contratti scaduti sono quindici e a ricevere stipendi ormai inadeguati è il 96% dei dipendenti per un totale di 7 milioni.

Basta una rapida panoramica per rendersi conto delle dimensioni del problema. Il contratto del turismo (Confcommercio e Federalberghi, valido per 560mila persone, e Federturismo Confindustria, 26mila) è scaduto da fine 2018, quello dei pubblici esercizi (Fipe e Legacoop produzione e servizi), sotto il cui ombrello ci sono 590mila occupati, dal 2021. Nel commercio il quadro è sconfortante: il ccnl firmato da Confcommercio e dai confederali, che copre stando all’ultima ricognizione CnelInps oltre 2,3 milioni di persone sparpagliate in 381mila attività, è in attesa di rinnovo da fine 2019, come quello di Confesercenti (65mila lavoratori), il contratto della gdo di Federdistribuzione (195mila) e quello della distribuzione cooperativa di Ancc Coop, Confcooperative e Agci (72mila). I sindacati, che a fine luglio hanno manifestato a Bologna contro lo stallo delle trattative, parlando di “atteggiamento dilatorio” delle controparti. Che nel frattempo sono però pronte a lamentare di essere a corto di personale perché i giovani non fanno la fila per lavorare come commessi o camerieri. Il governo Meloni sta a guardare: nonostante le promesse della ministra Marina Calderone non ha ancora fatto nulla per facilitare una soluzione.

L’impressione è che le imprese di questi comparti stiano tirando la corda in attesa che il sindacato ceda su qualche fronte. Prendiamo il caso del commercio. A dicembre 2022 per i lavoratori del commercio, quasi 3 milioni, è arrivato solo un accordo ponte che ha messo in tasca ai lavoratori una cifra una tantum – dai 139 euro per il settimo livello ai 350 per i quadri – e un anticipo di 30 euro sui futuri aumenti ancora da concordare. Poi Confcommercio, la cui vicepresidente Donatella Prampolini sostiene che il salario minimo “sarebbe una resa” perché “la strada maestra è la contrattazione”, ha aperto a un’ipotesi di accordo. Basata però, ha denunciato il segretario generale della Filcams Cgil Fabrizio Russo nella sua relazione all’assemblea generale riunite a Roma, su uno “scambio di diritti per salario, parte normativa per parte retributiva”: un po’ più soldi ma meno permessi retribuiti e una revisione degli scatti di anzianità. Mentre la distribuzione cooperativa pretende che gli aumenti siano definiti sulla base del “criterio di una presunta “sostenibilità” unilateralmente tradotta dalle associazioni datoriali e dalle imprese”.

Le trattative sono state complicate dall’arrivo, all’inizio dell’estate, la previsione dell’Istat sull’andamento dell’indice dei prezzi al consumo Ipca deputato dall’andamento dei beni energetici importati, che è quello a cui in base al Patto per la fabbrica del 2018 sono ancorati i rinnovi contrattuali: per il 2022 e 2023 l’Ipca-Nei si è impennato al 6,6%. Un livello che è stato subito recepito dalle buste paga dei metalmeccanici, il cui ccnl rinnovato nel 2021 prevede una clausola di salvaguardia sull’inflazione, mentre nel terziario è ritenuto proibitivo dalle parti datoriali. Nonostante aumenti di fatturato che – sempre secondo l’istituto di statistica – nella prima metà del 2023 hanno superato il 22% rispetto a un anno prima per i servizi di alloggio e ristorazione, mentre la grande distribuzione viaggia su un +7% nei primi 7 mesi 2023 rispetto allo stesso periodo del 2022. Le imprese ribattono che i ricavi sono saliti ma i margini no, per cui gli spazi di manovra sono limitati.

I sindacati ritengono imprescindibile il rinnovo entro fine anno e stanno valutando la mobilitazione. Intanto a pagare sono i lavoratori: sulla base del contratto Confcommercio, oggi un garzone o addetto alle pulizie guadagna 1.300 euro lordi e un aiuto commesso 1.500, sempre che siano a full time per 40 ore settimanali, e per loro la maggiorazione oraria per le domeniche lavorate – ormai quasi una prassi nella gdo – è del 30% contro, per esempio, il 50% dei metalmeccanici. Nel turismo e pubblici esercizi per gli stessi livelli di inquadramento la paga si attesta rispettivamente a poco più di 1.200 e poco meno di 1.400 euro lordi. Per un part time da 18 ore a settimana la retribuzione scende di conseguenza, fermandosi a livelli sotto la soglia di povertà.

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