La strage di via Carini del 3 settembre 1982, nella quale Cosa nostra uccise il generale-prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo, si può ricordare – con tutto il rispetto dovuto a un vero eroe della storia italiana, che ho avuto l’onore di apprezzare personalmente durante i difficili anni dell’antiterrorismo – anche parafrasando un gioco che si trova spesso nei giornali di enigmistica. Si tratta di unire, come fossero punti di una figura da disvelare, alcuni pensieri dello stesso dalla Chiesa, in prevalenza tratte dai suoi Diari e da una celebre intervista di Giorgio Bocca del 10 agosto, qualche giorno prima della strage. Ecco i “punti” da unire:

1) – Sono arrivato a Palermo subito dopo l’omicidio del mio amico Pio La Torre. Mi trovai al centro di un’opinione pubblica che ad ampio raggio mi dava l’ossigeno della sua stima e nello stesso tempo di uno Stato che affidava la tranquillità della sua esistenza, non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome.

2) – Che poi la mia opera potesse divenire utile, era tutto lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi fossero toccati o compressi.

3) – In quei cento giorni a Palermo, sono andato nelle scuole e nei cantieri navali a parlare con i ragazzi, con i loro insegnanti e con gli operai, ricevendo molto da quegli incontri. In quei cento giorni rifiutai invece, sistematicamente, tutti gli inviti (a cene e galà in mio onore) di ambienti altolocati, intuendo che proprio in quei salotti ci potessero essere anche contiguità e collusioni.

4) – In quei cento giorni ho capito molte cose, alcune molto semplici ma decisive. Si poteva, e si può ancora, sottrarre alla mafia il suo potere. Gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti: come ad esempio il lavoro e l‘assistenza economica o sanitaria. Occorreva e occorre, oggi più che mai, assicurarglieli questi diritti. Così si toglierà potere alla mafia, e i cittadini invece che suoi dipendenti (sudditi), potranno diventare nostri alleati.

5) – La mafia non è solo un “fatto siciliano”: da decenni la mafia sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e industriali. A me interessava, e ancor più deve interessare oggi, conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato, e trasformano, in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessava, e deve interessare ancor più oggi, la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci, magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.

6) – È quello che io chiamo il “polipartito” della mafia, per indicarne la profonda compenetrazione con pezzi della politica e dell’economia. Una compenetrazione utile e proficua alla mafia non meno che ai suoi complici occulti. Una mafia che mostra – come sempre – due volti: quello militare che insanguina le strade, e quello degli affari; che si inabissa per poter meglio consolidare una rete di relazioni al servizio di un business mafioso che avvelena (senza clamore, ma in modo profondo) l’economia e la qualità della nostra vita.

7) – Occorrevano mezzi e poteri adeguati per vincerla, la mafia, come avevo chiesto; occorreva che gli impegni presi dal Governo fossero rispettati. Invece furono disattesi.

Unendo i punti sopra elencati si ottiene come risultato una sorta di ritiro delle credenziali, un precipitare della situazione che si conclude per dalla Chiesa con la perdita del proprio status. La scelta della strage di via Carini, perciò, appare come un’azione – per quanto certamente compiuta da killer di Cosa nostra – troppo “politica” per non segnare un “salto di qualità” nella storia delle mafie italiane. Una declinazione di quel polipartito della mafia che dalla Chiesa aveva percepito e avrebbe voluto combattere.

Nella intervista a Bocca il generale più volte ritorna sul mancato adempimento delle promesse del governo circa i poteri necessari per combattere la mafia: “Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei Carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”. E alla domanda del giornalista sugli “impegni” assunti dal governo, risponde: “Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati”. Poi Bocca chiede: “Se non ottiene l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?”. Risposta: “Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più”.

Raggelante infine – quasi una profezia per se stesso – l’analisi del generale sull’omicidio di Piersanti Mattarella: “Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del ‘palazzo’. Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”.

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