Cinema

Venezia 80, quanto è bella La Bête di Bertrand Bonello con Lea Seydoux. L’amore oltre il tempo e i fantasmi

Un film che non solo conferma il talento del cineasta francese, ma ne costituisce un ulteriore passo verso la solidità di uno sguardo ormai riconoscibile per forma, linguaggi, tematiche

di Anna Maria Pasetti

L’amore, la paura, la solitudine. E ancora le identità multiple, i salti temporali, l’intelligenza artificiale. Così come il rapporto tra il vero e il falso, il reale e la finzione. Ma soprattutto una giovane donna che attraverso geografie spaziali e temporali si immerge nelle contraddizioni emotive che poi, alla fine, sono il motore dell’esistere. Su questo e molto altro riflette La Bête, opera di altissimo livello e spessore, portata in concorso di Venezia 80 dal sempre sorprendente e dallo sguardo costantemente in progress Bertrand Bonello. Un film che non solo conferma il talento del cineasta francese, ma ne costituisce un ulteriore passo verso la solidità di uno sguardo ormai riconoscibile per forma, linguaggi, tematiche. Al suo decimo lungometraggio l’autore di film radicali come Le pornographe (2001) ma anche socio-visionari come Nocturama (2016) o di pura fantascienza-horror dal tocco umanista come Zombie Child (2019), ingaggia la diva Lea Seydoux (con cui aveva già lavorato in altri film) e la inserisce in un melodramma di science-fiction semi-distocico e parzialmente in costume, ispirato al racconto La bestia nella giungla di Henry James del 1903. Al suo fianco l’attore inglese George MacKay (che ha sostituito il compianto Gaspard Ulliel) che come Gabrielle (questo il nome della protagonista) la incontra nei tre diversi periodi della Storia in cui il film è ambientato: il 1910 a Parigi, il 2014 a Los Angeles e il 2044 in un luogo non definito.

In altre parole il passato, il quasi-presente e il futuro in un crescendo di criticità per la vita sentimentale perché – dice il regista – “nel 1910 i sentimenti sono espressi. Nel 2014 sono repressi. In 2044, sono addirittura soppressi, con il rischio che correremo di vedere tutte le nostre emozioni manipolate o distrutte a causa di un abuso dell’intelligenza artificiale”. Ed è sempre il cineasta di Nizza a illuminare il senso di un lavoro che, benché appaia complesso, sofistico e articolato, ai suoi occhi è risultato semplicissimo e lineare: “Il mio desiderio era di mescolare il mondo intimo con quello spettacolare, la classicità con la modernità, la conoscenza con l’ignoto, il visibile con l’invisibile”. Tanti i piani e altrettanti livelli narrativi, drammaturgici, di messa in scena tra costumi, atmosfere, musiche e decòr straordinari che vanno dunque a (ri)comporre un mosaico organico e per nulla affastellato, ovvero di assoluta coerenza interna e seduzione esterna. Nutrito da evidenti ispirazioni agli universi lynchiani, ma anche dalle ossessioni visive di certo cinema di De Palma, ai salti sentimentali di Kaufmann, La Bête è certamente un racconto di fantasmi e di demoni interiori, ma sembra anche una riflessione sul tema del controllo sulle scelte esistenziali che, con lo strapotere delle tecnologie, mette in crisi il paradigma “umanista” finora valido. Con tutti i significati che “la Bestia” possa assumere tanto nell’oggettività del film quanto nella relazione che esso va a instaurare con ciascun spettatore, non vi è dubbio che essa possa rappresentare l’eterno conflitto tra la nostra finitezza e l’afflato di eternità, quell’utopia che comunque continua a dar senso alla nostra vita. Il film uscirà prossimamente nelle sale per I Wonder.

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