Periodicamente la cronaca ci riporta casi di omicidio, di stupro o di altre nefandezze dell’agire umano che la maggior parte delle persone non è in grado di comprendere e giustamente di tollerare (ultimo caso di cronaca che ha destato un’ondata di sdegno collettivo è lo stupro di Palermo, ad esempio).

Lo scatenarsi dell’aggressività e del livore verso chi si macchia di tali crimini non fa altro che confermare che tutti siamo in grado di lanciare odio e rabbia verso il prossimo, anche senza conoscerlo, e si assottiglia in questo modo la differenza tra noi e loro, tra chi ben pensa e ben fa e i “mostri”. Conoscere le azioni di qualcuno ci dà solo uno spaccato momentaneo di quello che la persona è, un uomo è qualificato dalle proprie azioni, ma il suo essere non si riduce ad esse, altrimenti nessuno potrebbe cambiare il proprio modo di comportarsi, se questo coincidesse con il proprio essere più profondo e intimo.

I concetti espressi da Hanna Arendt nel suo La banalità del male sono sempre validi e attuali, il male non è un qualcosa che si impadronisce di noi, ma è una possibilità dentro ciascuno di noi, può o non può venire fuori a seconda di tanti e diversi fattori. Non c’è essere umano esente dal male, se lo intendiamo come la possibilità di nuocere, a vari livelli, a qualcuno. Può non piacerci, ma è così. Il vero mostro talvolta è la normalità.

Certo, se qualcuno torce anche solo un capello a un mio caro ho il diritto di perdere l’oggettività e sprofondare nelle mie emozioni fino anche a scaraventarle verso chi ha fatto del male (parliamo sempre di emozioni, non di azioni le quali devono rimanere nei limiti del lecito). Comprendere è dovere di chi non è coinvolto, non comprendere diritto di chi è coinvolto. Quando succede che chi è coinvolto cede il suo diritto di non comprendere e si sobbarca il dovere di comprendere ci troviamo di fronte al meglio che l’umanità possa offrire di se stessa. E’ nel male più assoluto che talvolta si scorge più nitidamente il bene che in mezzo alla melma che lo circonda risalta.

Sono ormai quasi 15 anni che, nel mio lavoro, incontro uomini che hanno compiuto atti lesivi della dignità e dell’integrità fisica di donne, minori, ma anche di altri uomini: li incontro nelle carceri, ma anche fuori da questi. Di “mostri” ne ho conosciuti, seppure io non li abbia mai riconosciuti come tali: con un mostro non puoi starci in stanza, fare un colloquio; un mostro non parla, non ascolta, non ha sentimenti; un mostro è una sorta di essere selvaggio che non pensa, agisce in base a istinti e soprattutto un mostro non può cambiare, se mostro è, mostro rimane. Questo rende la vita semplice ai più, in quanto un mostro non è un problema, è un qualcosa di dato in natura e di conseguenza non dobbiamo essere noi a farcene carico, se non nella misura in cui esso va contenuto e recluso perché non faccia altro male. Da quel momento in poi può solo fare male a se stesso o riceverne da un sistema detentivo punitivo.

Coloro che si macchiano di crimini non vanno difesi per le loro azioni, vanno giudicati e sanzionati anche duramente, ma se vogliamo che gli abusi cessino, se vogliamo che non vengano trasmessi ad altri o che nascano in altri, dobbiamo capire da dove arrivano, cosa li genera.

La vita di ognuno di noi non è semplice, lo sappiamo solo noi con cosa lottiamo ogni giorno per essere dove siamo ora, alternando magari periodi migliori ad altri peggiori. Per alcuni, periodi migliori non ci sono mai stati o sono insignificanti, se paragonati ai periodi peggiori. Semplifico certo, ma mi interessa far arrivare concetti basici e condivisibili.

Possiamo scegliere come vivere la nostra vita, ma a seconda di com’è la nostra vita facciamo scelte diverse. Posso scegliere di rubare per noia, per vedere se ne sono capace, perché mi risulta facile, perché quel che già ho, seppure abbastanza, non mi basta, oppure posso scegliere di rubare perché altrimenti oggi non ho da mangiare.

Non sottovalutiamo la capacità di scelta dell’essere umano: a parità di condizioni, gli esseri umani possono fare scelte molto diverse in virtù dei loro vissuti diversi e anche di qualcosa di estremamente intimo e personale di cui ognuno può essere consapevole, ma che forse si presta male ad essere definito con precisione.

Lasciamo che la giustizia faccia il suo corso. Sappiamo che è un costrutto umano e come tale imperfetto e migliorabile di continuo, non neghiamo che delle azioni di contenimento siano spesso necessarie e non eludibili, consapevoli comunque che troppo spesso, da sole, non fanno altro che aggiungere “far male” al “far male”. Ma lasciamo i mostri alle favole e affrontiamo il fatto che l’essere umano non è un mostro, pur potendo compiere azioni mostruose. Dimostriamo la nostra di umanità, quando quella dell’altro fatica a venire alla luce, solo così contribuiremo a vivere in una società dove lo sbagliare magari non scomparirà, ma forse potrà ridursi. La rabbia verso quello che non comprendo parla di me, non del (s)oggetto verso cui la rivolgo.

Vignetta di Pietro Vanessi

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