di Massimo Arcangeli

Noci da accatastare, da tirare, da “sbocciare”. Sono tanti i giochi praticati nell’antica Roma che prevedevano la presenza delle noci: contese a forza di par e impar, le due risposte alla domanda sul numero di quelle celate nel pugno di una mano; tirate in direzione della costellazione del Triangolo (gr. Δελτωτόν), il piccolo raggruppamento di stelle a nord di quella dell’Ariete, o di un delta maiuscolo (Δ), disegnati col gesso (o tracciati in altro modo sul terreno), per avvicinarsi il più possibile al vertice della figura risultante, passando per i vari livelli, compartimentati da linee trasversali parallele alla base (figura 1), e aggiudicarsi tante noci quante fossero state le righe raggiunte e oltrepassate; fatte rotolare giù per un’asse inclinata per colpirne altre, intercettate lungo il percorso dopo una partenza in simultanea – con i frutti tutti allineati in vetta – o incocciate al termine di una solitaria corsa.

Figura 1: Una probabile piattaforma per il “gioco del triangolo”.

C’erano poi le noci imbucate nello stretto collo di un’anfora nel gioco dell’orca (“orcio, giara”; gr. ὕρχή). Il suo corrispondente ellenico era la τρόπα, termine attestato nel grammatico e lessicografo Giulio Polluce e documentato anche in Marziale: “ludit tropa nequiore talo” (“gioca alla tropa con dadi assai poco puliti”), Epigrammaton, IV, 14, v. 9. I Greci lo praticavano in specie con gli astragali, fatti perlopiù piombare – stando in piedi – in piccole buche scavate nel terreno.

Noci, ancora, ammonticchiate in gruppi di quattro nel ludus castellatus, con un basamento di tre, disposte triangolarmente, e la quarta piazzata sopra il terzetto, nel punto d’incrocio fra i suoi ovaliformi colleghi. Le castellatae nuces andavano abbattute da un’altra noce, scagliata dall’alto o schiccherata da terra, e potevano essere posizionate all’interno di un triangolo oppure di un cerchio come nel greco ὤμιλλα; per vincere bisognava buttar fuori dal cerchio tutti i pezzi avversari, astragali o loro sostituti, evitando di oltrepassare con i propri la linea di demarcazione del tracciato (al cui interno ci si posizionava).

I quattro pezzi del bersaglio dovevano essere dunque espulsi dalla figura di contenimento, e chi riusciva nell’impresa se ne impadroniva. Vinceva chi li aveva cacciati tutti o ne aveva fatti schizzar fuori di più. Tracciato il campo di gioco, e sistemata con cura la piccola piramide di noci all’interno dell’area delimitata, ci si accucciava e il colpo partiva. Dallo scatto dell’indice della mano, trattenuto un attimo prima dal polpastrello del pollice, sortiva un effetto ben diverso da quello prodotto dalla corda tesa e rilasciata di un arco predisposto per l’uso. Il rotolio sussultante e scomposto della noce scoccata era la caricatura pedestre dell’aerea superbia di una freccia saettante.

Tutti i giochi con le noci fin qui sunteggiati sono descritti in un poemetto in distici elegiaci, molto difficilmente ovidiano – ma c’è chi ancora pensa lo sia –, in cui il protagonista è un noce che si piange vittima dei passanti, perché depredato allegramente dei suoi frutti:

«Has puer aut certo rectas dilaminat ictu
aut pronas digito bisve semelve petit;
quattuor in nucibus, non amplius, alea totast,
cum sibi suppositis additur una tribus.
Per tabulae clivom labi iubet alter, et optat
tangat ut e multis quaelibet una suam.
Est etiam par sit numerus qui dicat an impar,
ut divinatas auferat augur opes.
Fit quoque de creta, qualem caeleste figuram
sidus et in Graecis littera quarta gerit:
haec ubi distincta est gradibus, quae constitit intus
quot tetigit virgas, tot capit ipsa nuces.
Vas quoque saepe cavom spatio distante locatur,
in quod missa levi nux cadat una manu»
(Nux, vv. 73-86).

(“Un ragazzo le spacca con un tiro secco all’impiedi o le colpisce col dito, accovacciandosi, una o due volte. Per il gioco sono sufficienti quattro noci, non di più, una delle quali sistemata sopra le [altre] tre. Un altro [ragazzo] impone [a una noce] di scorrere lungo una tavola in pendio, sperando che tocchi, fra le molte, una qualsiasi delle sue. C’è anche chi dice essere il [loro] numero pari, oppure dispari, pronto ad accaparrarsi, al modo di un indovino, il bottino azzeccato. Si può ancora disegnare col gesso, onde rappresentarne in qualche modo l’immagine, la figura di una costellazione celeste o della quarta lettera greca: la noce che riesca a finir dentro quella [figura], al cui interno si sarà intanto provveduto a tracciare delle linee divisorie, cattura un numero di noci equivalente alle righe toccata. Spesso viene anche posizionato a distanza un vaso cavo, nel quale possa cadere una noce lanciata da una mano leggera”).

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