Sono passati cinque anni dal giorno della tragedia del ponte Morandi e da allora rimangono aperte le ferite delle famiglie delle vittime generate dal crollo; in più, la verità (processuale) è ancora lontana. Così come sono ancora da accertare, dal punto di vista individuale, le responsabilità manageriali di chi gestiva l’autostrada e di chi non ha fatto la manutenzione necessaria per tenere in sicurezza il ponte dell’Aspi del gruppo Benetton.

A giudizio, per il crollo del ponte, sono 58 persone tra dirigenti e tecnici, o ex, di Autostrade, di Spea e del ministero dei Trasporti. Gli addebiti principali sono a vario titolo di omicidio stradale plurimo, falso e disastro.

Il problema sicurezza era conosciuto al ministero dei Trasporti e in Aspi dal 1991. Tant’è vero che quando si decise di mettere in sicurezza uno dei principali piloni del Ponte, una delle imprese coinvolte in quell’operazione, Isa-Italstrade, propose l’abbattimento totale del viadotto o perlomeno del sostegno malconcio. Ha così testimoniato al processo in corso un consulente-ingegnere. Autostrade però si oppose.

Le responsabilità sono di chi non ha disposto la chiusura o la limitazione dei veicoli sul ponte e del ministero dei Trasporti che non ha esercitato i poteri di controllo, espressamente attribuitogli dalle norme in vigore. L’88% di Autostrade per l’Italia è stato ceduto da Atlantia a Cassa Depositi e Prestiti, in cordata con i fondi Blackstone e Macquarie, realizzando così il cambio di proprietà della “gallina dalle uova d’oro”, da privata a pubblica sulla carta, ma di fatto di nuovo privata.

L’uscita di scena dei Benetton è stata agevolata da una ricca “buonuscita”, che va dai 7 agli 8 miliardi di euro, tale da comprendere i costi di danni e le eventuali cause risarcitorie legate al crollo del ponte. Inoltre grazie ad una delibera dell’Autorità dei trasporti (Art), il concessionario statale ha beneficiato anche di un aumento tariffario dell’1% annuo, con possibilità di arrivare all’1,7% fino al 2038 e un ristoro-Covid di 332,8 milioni di euro.

Quest’anno l’aumento è stato del 3,5%, quasi triplo rispetto a quanto pattuito. C’è voluto il ritorno al controllo pubblico (parziale) per avere un nuovo aumento dei pedaggi fermi dall’anno della tragedia.

Il passaggio di proprietà è comunque in perfetta continuità con la gestione precedente: extraprofitti, scarsi investimenti, poca manutenzione e automobilisti “spennati”. La musica, ovvero le regole contrattuali della concessione, è rimasta la stessa. Lo Stato non “regola” se stesso e neppure gli altri concessionari, a partire dal potente Gruppo Gavio.

Sono cambiati solo i manager (indicati dalla politica e dai fondi d’investimento). Da questa vicenda lo Stato ne esce da padrone, perdente, visto che i meccanismi regolatori tutelano prima l’interesse privato e poi (forse) il bene pubblico. La vecchia rendita di posizione Aspi è stata trasferita da una holding privata a una finanziaria pubblica, la Cassa Depositi Prestiti, che – è bene ricordare – ha la missione di fare profitti,, abbassando sempre più gli interessi dei risparmi postali e acquistando reti autostradali, allargando la gestione con fondi d’investimento e finanziarie internazionali.

Riguardo alla ricostruzione del Morandi, anche se i lavori si sono conclusi velocemente, lo sbandierato “modello Genova” frutto del decreto che ha trasferito pieni poteri di commissario alla ricostruzione al sindaco Marco Bucci ha mostrato molte falle e ha lasciato una pesante eredità. I lavori di ricostruzione sono stati affidati senza gara – per un importo di 175 milioni di euro – al consorzio misto nazional-popolare (Fincantieri, Fs e Impregilo), quando un altro consorzio italo/cinese aveva fatto una proposta che sarebbe costata 25 milioni in meno. Avrebbe realizzato tre corsie per senso di marcia contro le due del ponte concluso, e negli stessi tempi, se non prima. Un ampliamento che avrebbe garantito una migliore rispondenza alle esigenze del traffico e agli eventuali sviluppi dell’assetto infrastrutturale, una maggiore sicurezza e una maggiore scorrevolezza (e quindi anche un minore impatto ambientale da emissioni). Secondo uno studio del Politecnico di Milano, inoltre, con tre corsie e alcuni interventi come l’allargamento delle gallerie e la fluidificazione a monte e valle del viadotto, si sarebbe potuta evitare la costruzione della Gronda di Genova, che prevede una spesa fino a 4 miliardi euro e un enorme impatto ambientale che in prospettiva non si potrà purtroppo evitare.

Ora quel pasticciato decreto del governo Conte è diventato un riferimento politico e giuridico per come fare le opere pubbliche. Il dispositivo è un pesante arretramento per le tutele del territorio e nella gestione trasparente e partecipata della cosa pubblica. Sancisce l’insofferenza verso le regole di tutela ambientale, la partecipazione dei cittadini (ma anche degli organi rappresentativi) ridisegnando la gestione del territorio verso un modello autoritario. Con l’autorizzazione ad operare “in deroga” ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale, fatto salvo il rispetto delle disposizioni delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, si istituzionalizza la politica dei “commissari” per ogni opera.

Il dopo Morandi, anziché dare uno scossone riformatore al sistema delle concessioni autostradali, ha generato il “decreto Genova”, cioè la nomina di Commissari straordinari per le opere ritenute strategiche, nominati direttamente dal presidente del Consiglio su proposta del ministro delle Infrastrutture, per gli interventi che questo riterrà prioritari, con il ruolo di stazione appaltante e il potere di agire in deroga al codice degli appalti e alle norme di tutela ambientale, paesaggistica e artistica.

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Cosa rimane dal crollo del Ponte Morandi? Opportunità affaristiche e il ‘modello Genova’

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