A cinque anni dal crollo del viadotto Polcevera – detto anche Ponte Morandi dal nome del suo progettista, l’ingegnere Riccardo Morandi – possiamo ormai cogliere appieno l’impatto di quest’inaudita catastrofe; tanto nei suoi aspetti materiali sulla città di Genova come in quelli psicologici sull’immaginario civico. E la netta distinzione tra chi li ha subiti e chi ne è stato beneficiato, ossia le vittime e gli avvoltoi, che hanno iniziato a volteggiare sulle loro teste subito dopo quel 14 agosto 2018.

In primo luogo i 43 scomparsi e le loro famiglie, ma anche una comunità che ha interiorizzato la mazzata quale definitiva certificazione del proprio declino; a fronte di un certo numero di furbacchioni rapidi nel cogliere l’opportunità, secondo l’acuta osservazione di Naomi Klein che il capitalismo si nutre di catastrofi (shock economy). Difatti è proprio grazie a tale crollo e relative conseguenze (già in precedenza risapute come altamente probabili da politici e tecnici avvicendatisi al governo locale e nazionale) che sono piovuti miliardi di euro pubblici da spendere; e i commissari preposti a gestirli in piena discrezionalità hanno fatto la fortuna delle proprie carriere politiche e professionali.

L’importante opera era stata inaugurata in pompa magna – con tanto di presidente della Repubblica a tagliare il nastro – il 4 settembre 1967. Sicché il suo profilo, al tempo elegante e imponente, testimoniava il concreto interesse del resto dell’Italia a potenziare i collegamenti con uno dei luoghi nevralgici della Grande Impresa, leader nella cantieristica e nella siderurgia. Dopo il 2018, i moncherini deprimenti del ponte crollato simboleggiarono a lungo il declino industriale e la conseguente perdita di attrattività da parte di un’area sempre più marginale rispetto ai mercati mondiali, prima ancora che avulsa dalle dinamiche nazionali.

Semmai le opportunità suscitate furono altre, di stampo affaristico per non dire speculativo. Prima di tutto la ricostruzione del manufatto, che vide subito in pista l’enfant du pays Renzo Piano (l’unico superstite della trimurti consolatoria di una comunità che fu laica e smagata, ora alla ricerca di devozioni fideistiche: con l’archistar Don Gallo e Fabrizio De André). Così saltò fuori quasi in tempo reale il solito schizzo della “magica matita”, sempre prodiga di doni alla città (non meno che di attenzioni alla committenza del momento, prefigurate già dal poeta Virgilio: timeo Pianos et dona ferentes).

Come risultato di tale apporto “disinteressato” ecco quel viadotto San Giorgio, bruttino e pure sghimbescio, con gallerie a due sole corsie e opinabili scelte costruttive; tanto che in passato alcuni stimati tecnici ne hanno messo in dubbio la durata. Altro che i mille assicurati dal celebre donatore! Sempre a fronte di una cittadinanza silente nella sua estraneazione rispetto a fatti che pure la riguardano. Anche per il ruolo dell’informazione locale, prostrata di fronte alle scelte insindacabili di un potere avido (il presidente di Regione Toti, che ha industrializzato le svendite dei suoi predecessori, dalla sanità alle rendite portuali) e megalomane (il sindaco Bucci e le sue visioni americaniste di scritte nel cielo inneggianti al fare per il fare). Un vacuum contrastato solo dai nostri cronisti presenti su piazza (leggi Andrea Moizo e Marco Grasso), oltre a qualche social di controinformazione.

E la magistratura? Anche lei ci mise del suo nel narcotizzare la vicenda. Per imperizia o vanità? Fatto sta che si è montato un caravanserraglio processuale che rischia di proseguire all’infinito, cancellando nelle prescrizioni malefatte e colpe in vigilando. E non aggiungo più nulla in quanto è a disposizione dei lettori l’eccellente podcast in sette puntate di Marco Grasso, 11.36. La strage del Ponte Morandi.

Insomma, da tanto dolore cosa emerge di concreto? Ad oggi si direbbe che l’unico lascito della terribile vicenda sia un effetto ottico ingannevole, che cancella qualsivoglia controllo di legalità sull’agire dei pubblici amministratori. Come dice il sindaco Bucci, “fare male è meglio che non fare”. Si chiama “Modello Genova”: la teorizzazione a regola generale del principio anti-trasparenza democratica “non disturbare il manovratore”. Via libera ad ogni operazione anche scriteriata come alle manie di grandezza di questa destra esibizionista.

Difatti il nostro Andrea Moizo ci riferisce che Bucci, in veste di commissario al porto, è appena incappato nelle grinfie dell’Autorità nazionale anticorruzione per il gigantesco appalto della diga foranea di Genova, affidato senza gara a Webuild ex Impregilo. Una commessa già bloccata dal Tar per 1,3 miliardi, di cui 253 milioni inspiegabilmente (?) anticipati dal committente prima dell’inizio lavori. E dato che in Liguria l’opposizione politica non si cura di raccordare le energie civiche pur presenti, ancora una volta il ruolo di coscienza critica della comunità finisce per essere assunto da un comico. Nel caso l’ispanico-genovese Enrique Balbontin attualmente in area Gialappa’s, che nel suo rap omonimo così liquida il Modello Genova: “l’unico modello con la deroga che deroga la regola”.

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