La frase “Dottore de Lucia, io non mi farò mai pentito” è stata pronunciata da Matteo Messina Denaro nel suo ultimo verbale; mentre pochi giorni fa, in occasione dell’anniversario della morte di Borsellino, mi sono imbattuto in un corteo che inneggiava ad ‘uno stato senza carcere’ preceduto da un cartello che gridava No al 41bis, formato da persone mobilitatesi per Alfredo Cospito, primo caso di un anarchico sottoposto a questo regime carcerario. In questo No al 41 bis confluiscono sia un malinteso senso libertario e anti oppressivo di una parte della sinistra che lo relega a semplice atto di tortura, sia una diffusa pulsione securitaria alimentata da alcune parti politiche.

Il 41 bis, ove applicato solo ai boss malavitosi (originari destinatari di questa misura, lo si ricordi sempre) non è l’azione oppressiva di uno Stato orwelliano, sadico e totalitario, che sceglie pene quasi corporali contro le quali ‘ribellarsi’ da sinistra, né deve diventare l’obiettivo di quella parte di popolazione che, da destra, la mano punitiva dello Stato la invoca come illusoria panacea dei tanti reati che sono commessi.

Il 41 bis ha una radice clinica e sociologica, prima che legale, ed è proprio il verbale di Messina Denaro a testimoniarlo.

Tale articolo, che impedisce ai vertici di organizzazioni criminali quali mafia e ‘ndrangheta di avere contatti con l’esterno, è la sola possibilità che un consesso sociale democratico ha di difendersi da chi obbedisce ad altri codici, altre leggi. Uomini per i quali il concetto di ‘pentimento’, ‘ravvedimento ’, ‘cambiamento’ non sono contemplati in quanto essi obbediscono a leggi assolute, fondamenta naturali e interiorizzate di un idea di società antagonista a quella basata sulla Costituzione: “desidero che mi rimangano i miei principi, giusti o sbagliati che siano” ribadisce Denaro, spiegando, se ancora ce ne fosse bisogno, il concetto di ‘inappartenenza allo Stato’ e, dunque, di ‘non redimibilità’ o pentimento per azioni criminali non ritenute tali.

Il procuratore Sergio Lari, in una lunga intervista relativa ai processi a Cosa Nostra, diceva a proposito di Totò Riina: “In quel contadino analfabeta nessun barlume di pentimento”. Da uomo di legge è riuscito a cogliere quello che la psicoanalisi da tempo conosce e insegna: ci sono persone che obbediscono a leggi diverse dalla lex degli uomini, fedeli a tavole che sono antecedenti al codice penale e civile da essi ritenuto un intoppo al perseguimento di quell’ordine sociale che il codice malavitoso cerca di edificare. Un ordine fondato sulla violenza, sulla gerarchia familiare, sull’eliminazione fisica dell’avversario.

Le cronache raccontano che, prima dell’avvento del 41 bis, molti capimafia erano sì detenuti in carcere, ma con ampie possibilità di comunicare col mondo esterno, dunque totalmente dediti alla funzione di dominus che emana ordini, direttive, dà indicazioni e gestisce gli affari anche da dietro le sbarre. La loro parola, fatta giungere a chi di dovere, potendo contare su ‘fedeli’ per i quali assurge a legge, poteva e può mietere ancora morte e vittime nell’ottica di un conflitto continuo.

Quando, nei suoi ultimi mesi di vita, Riina veniva intercettato mentre camminava fuori dalla cella, diceva: “Io mi sarei fatto altri mille anni”, ribadendo una natura non redimibile, non mutabile, non soggetta ad altre leggi se non quelle che lo hanno cresciuto e che lui ha introiettato ritenendole le sole giuste, le uniche applicabili.

Il capomafia non si ritiene ‘giudicabile’ da uno Stato che non riconosce, alle leggi del quale non vuole sottoporsi perché non dà a queste alcun valore. La frase di Denaro “Speriamo che muoio prima, così la chiudiamo qua” va in questa direzione.

Quando Giovanni Falcone pensò al 41 bis non voleva la mortificazione del corpo. Né vendetta o men che meno l’annichilimento dell’uomo. Falcone, profondo conoscitore di Cosa Nostra, aveva capito di essere in guerra con un altro Stato, e da stratega voleva togliere ai boss quei legami che permettevano loro di regnare. Avendo intuito la base antropologica e sociale del sistema mafioso, voleva corrodere le fondamenta del potere dei capimafia, convinto da sempre della loro irredimibilità. Da qua il fraintendimento di chi lo accusava di utilizzare strumenti troppo duri.

‘Non uccidere, e non rubare. Rispetta i servitori dello Stato, paga le tasse’ . Facile a dirsi per noi, che con questo senso della legalità siamo nati e cresciuti, chi più chi meno, e un’idea diversa di mondo non la sappiamo immaginare. Il Super Io freudiano è l’istanza morale propria di ciascun uomo, interiorizzata nel corso dello sviluppo, che tende a distinguere il bene e il male secondo le indicazioni sulle quali la società si fonda, trasmesse poi dalle figure genitoriali. Il Super Io ha come base strutturale la prevalenza della legge degli uomini sulla lex perversa che abita il bambino (perverso polimorfo, come insegna Freud) che prevede ab origine una naturale tendenza all’illimitato, strada pulsionale pura che l’infante seguirebbe se non educato.

Le regole che la struttura sociale impartisce, filtrate dall’insegnamento dei genitori, determinano una messa a freno e un calmierare di questa tendenza onnipotente in nome del bene sociale. Il senso di colpa, la vergogna, sono i residui non lavorati ma pesanti di quel momento di scarto nel quale il soggetto, una volta cresciuto, si lascia andare a comportamenti diversi da quelli introiettati, provando un senso di colpa direttamente proporzionale alla base etica sulla quale egli si è sviluppato.

I capimafia, i soldati sinceramente devoti e assoggettati alla lex dell’antistato, non provano senso di colpa o ‘pentimento’ nel porsi come estensori e continuatori di una legge violenta, perché partono da basi diverse, differenti. Opposte. Nascono, crescono si pascono del nutrimento di un Altro che ha come fondamenta millenarie altri codici morali, altre direttive, che vengono riversate con cura nel fiume dello sviluppo del bambino. Il fine ultimo è un mondo che prevede la violenza al posto del confronto, il rispetto per il potente invece del principio di eguaglianza. I rappresentanti della legge (‘sbirri’, magistrati e servitori dello Stato) sono dunque abitanti di un universo vissuto come nemico, ostile, e la loro opera è un intralcio alla creazione di una società basata sul concetto di ‘fedeltà’, sull’affiliazione parentale come antagonista al benessere collettivo.

Dunque, absit iniuria verbis, il loro Super Io interiore è coerente laddove non genera colpa per aver ucciso un poliziotto, un carabiniere, un magistrato. Sono, alla fine, nemici. Sta qua la natura della loro non redimibilità. Come pensate si possa sciogliere un bambino nell’acido senza provare un briciolo di colpa, se non ritenendolo un passo necessario al consolidamento di un potere che non prevede la delazione o il ‘tradimento? (Alliberati du cagnuleddu”, ‘sbarazzati del cagnolino’ sarebbe stato l’ordine impartito al killer).

La tigre non conosce altra legge che la morte della preda, la caccia come elemento regolatore dei rapporti con altri animali. Non può essere ‘convertita’ al vegetarianismo, e non può essere ‘convinta’ a trattare l’uomo come suo simile. Se libera, in una stanza con noi, sbrana. Il 41 bis è quella legge che deve impedire alla tigre di uscire.

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