Cinema

William Friedkin morto, quando muore un regista così bisogna solo inchinarsi: cinema puro, mai più

di Davide Turrini

Quando a lasciarci è un signore come William Friedkin bisogna solo inchinarsi. Friedkin che, tra gli altri, ha girato L’esorcista, Il braccio violento della legge, Vivere e morire a Los Angeles, Il salario della paura, è stato uno degli esempi più brillanti, compatti, coinvolgenti di un cinema New Hollywood che ha saputo coniugare commerciabilità e autorialità, polemiche culturali e azione cristallina. Discorso vecchio e trito: negli anni settanta, e in particolar modo negli Stati Uniti, si è fatto il miglior cinema della storia. Punto. Di questa epoca, quella dei primi Coppola, Spielberg, Scorsese, ecc.. Friedkin ne ha fatto parte in pieno anche se per traverso. Non era un membro stretto di quel gruppone storico, ma come lui stesso affermò in un’intervista sul finire dei sessanta Hollywood “consisteva in un mucchio di vecchi che non sapeva cosa stesse succedendo e un mucchio di giovani come me ambizioso e ansioso di avere delle opportunità”.

Nato a Chicago da famiglia ebrea proveniente dell’Ucraina, probabilmente con un cognome affibbiato ai suoi familiari dai funzionari statali addetti all’immigrazione di Ellis Island, con uno zio poliziotto da cui presero spunto per la storia de Gli Intoccabili nonché esempio di poliziotto spiccio e franco che tanto influenzò i polizieschi action girati, Friedkin a venti anni è già a dirigere show e film per la tv “in diretta”, nonché parecchi documentari sempre per la tv. Poi, appunto, rifacendosi per sottrazione a Coppola, “galoppino di Corman”, Friedkin spiegò che volevano tutti imitare le Nouvelle Vague, il “cinema che dice qualcosa di nuovo”. Lui disse “ma non ci riuscivamo”, ed è vero. Ma come dire, ad ognuno la sua “onda”. Galoppino di nessuno, Friedkin, ma uomo giusto al momento giusto. Nel 1968 esordisce infatti prestando la sua regia a una coppia musicale del momento. Good Times è un musical sgangherato con protagonisti i divi del momento, Sonny e Cher. Sorta di apriscatole delle produzioni in crisi che prima gli danno la possibilità di dedicarsi a testi teatrali trasposti – Festa di compleanno e The boys in the band – ma che subito nel 1971 gli danno in mano un filmone incredibile come Il braccio violento della legge. Oltre a vincere cinque Oscar (uno per la regia, peraltro) il film è innovazione purissima del linguaggio cinematografico e Friedkin ne è minuzioso esecutore in ogni ambito della costruzione. Intanto va sottolineato come il regista si prenda i suoi tempi sia per restituire la dinamica dell’azione (gli inseguimenti in auto in alcuni istanti sono veri e propri stralci di realismo rubato al traffico della strada) come il senso dell’agire di poliziotti e criminali. Qui segnaliamo qualcosa di sublime che andrebbe insegnato in ogni scuola di cinema: il pedinamento estenuante di Gene Hackman “Papà Doyle” e Roy Scheider al raffinato gangster francese Charnier (Fernando Rey). Dura parecchio, e non lo rivediamo da tanto, ma ti fa capire cosa significhi prendersi la libertà di girare quel cavolo che e come si vuole. Risultato? Oscar, appunto, e campione d’incassi.

Friedkin bissa subito con L’esorcista nel 1973 e letteralmente riscrivere anche qui l’abc dell’horror. Da un lato c’è (ancora!) la costruzione dell’attesa del colpo di scena (che qui si dilata fino all’agnizione del diabolico incarnato nella piccola protagonista Regan-Linda Blair) e poi una furibonda e irreale rappresentazione visiva e acrobatica del male. L’esorcista non è solo il film “del vomito verde”, anche da parodiare come è accaduto, ma è soprattutto la prova concreta che si può filmare in maniera innovativa senza perdere il legame con i classici (Friedkin amava Hitchcock e Psyco, e qui avrebbe voluto Bernard Herrman per il soundtrack) dialogando con il presente (ci vorrebbero dieci pagine solo per le polemiche religioso/scientifiche ancora oggi non sopite) e sbragando letteralmente le porte del futuro (tutto lo splatter degli ottanta deve genuflettersi a Friedkin). Nel 1977, dopo parecchi anni di attesa, Friedkin torna con Il salario della paura, sottovalutatissimo film maudit che si rifà alla matrice francese Vite vendute di Cluzot (ed è più bello quello di Friedkin) che non riscuote più il successo dei due film precedenti ma che scala ulteriormente l’olimpo del thriller, mettendo in scena una sorta di grammatica dell’azione e del pathos, quasi annullando il cast all star (tra cui Scheider reduce dal successo de Lo squalo) e concentrandosi sugli infinitesimali meccanismi e dettagli con cui si fa saltare lo spettatore sulla sedia. Friedkin era un attento e presissimo realizzatore su carta del taglio e della composizione di ogni singola inquadratura prima ancora che si desse il primo ciak. Poi ancora Vivere e morire a Los Angeles, altra perla inaudita poliziotto versus criminale, con un inseguimento in contromano che lascia nuovamente a bocca aperta. Friekin, va detto, amava stupire. E forse per questo negli anni novanta e duemila pieni di finti maghi del cinema e di tante mezze calzette da film di genere si è trovato come fuori posto, messo di lato, parcheggiato in attesa di chissà quale zampata. Zeitgeist. Spirito del tempo. Friedkin è detonato nei settanta e ha fatto la storia. Stupendo dicevamo, come quando nel 2017 si è prestato al gioco (?) di The devil and padre Amorth, una specie di documentario sul celebre esorcista modenese dove è riuscito a tornare, proprio con un budget risicato, e reinventandosi continuamente, minuto dopo minuto, il senso del reale e l’ipotesi di soprannaturale, ai fasti increduli, stupefacenti, scorrettissimi de L’esorcista.

Friedkin stupiva, insomma, come quella volta a Torino nel 2002 quando mi spiegò, personalmente, qualcosa di incredibile. “Premetto che sono di origine ebraica ma non credente”, mi disse riferendosi al personaggio della ragazzina indemoniata protagonista de L’esorcista, film tratto dal libro di Peter Blatty, con cui Friedin battibeccò parecchio. “Quello che ho visto in quella casa dove mi hanno portato a vedere quella che veniva definit una ragazzina indiavolata non l’ho mai visto prima, né mai più nella vita”. Caro vecchio William, ci hai stupito anche lì. Cinema puro, mai più visto nella vita.

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