Tutto è iniziato con una telefonata. “Un giorno mi chiamò il professore a capo del laboratorio in cui ero stato tre anni prima al Mit di Boston: ‘Renato – mi dice – stiamo fondando una società con vari ragazzi del laboratorio. Torni?’”. Renato Umeton ha 39 anni, vive negli Stati Uniti da più di dieci insieme a sua moglie Raffaella e dalla terra dove ha studiato, la Calabria, è passato prima al prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT), e ora è Direttore dell’Intelligenza Artificiale e Data Science nel dipartimento di Informatica & Analisi del Dana-Farber Cancer Institute, il prestigioso ospedale oncologico della Harvard Medical School.

“Penso che ci sia molto che l’Italia possa imparare dal modello Usa, e allo stesso tempo che le istituzioni americane possano imparare molto dall’Italia”, spiega Renato, che ha lasciato Rende (Cosenza) il 21 aprile 2009 (“come dimenticarlo, il giorno dopo la festa per i 60 anni di mio padre”) per un periodo di studio e lavoro di 18 mesi in un laboratorio del Mit. “Perché sono partito? Lavorare nel campo della ricerca ti espone necessariamente a un contesto internazionale. Nel mio caso, il professor Giuseppe Nicosia aveva creduto in me, nelle mie capacità, e aveva deciso di vedere di cosa fossi veramente capace mettendomi in contatto col Mit”, spiega.

Nel laboratorio americano Renato è accolto a braccia aperte: “Ero uno studente pagato dall’Italia che arrivava per aiutare i loro progetti”. E da studioso di informatica, essere approdato in quell’istituto americano era “un sogno”. “Mi rendevo conto che quella era la mia chance lavorativa e di vita”: un laboratorio condiviso da vari professori in cui si studiava systems biology, fluido-dinamica computazionale, robot creati con biomateriali. Un ambiente iper stimolante.

Al termine del periodo di ricerca e dopo aver rifiutato la prospettiva di un Postdoc ad Harvard, Renato torna a casa. Tra il 2010 e il 2013 lavora come precario della ricerca in Italia: “Ho fatto oltre 20 concorsi per un posto da ricercatore universitario. Ci dovevo provare: l’Italia è il Paese dove sono cresciuto e che mi ha dato tutta la formazione scolastica”. Fin quando non arriva la chiamata da Boston, nell’università dove era stato in visita tre anni prima. “Non ci ho pensato due volte. Questa volta non partivo per me, ma per dare una chance migliore della mia ai miei figli”.

È così che si realizza il “sogno professionale” di Renato: lavorare come direttore dell’Intelligenza Artificiale e Data Science al Dana-Farber Cancer Institute, il quarto ospedale oncologico al mondo. “Aiutiamo medici e pazienti tramite l’introduzione dell’AI nei reparti dell’ospedale, nelle nostre cliniche e in tutti i nostri laboratori di ricerca”. Il team è composto da 40 persone, che arrivano da ogni parte del mondo: “La cosa che più mi appassiona è la traduzione delle nostre ricerche in trial clinici, in nuovi farmaci. Vedere un impatto positivo sui pazienti non ha paragoni”. In un articolo recentemente pubblicato su Nature Medicine, Renato e altri colleghi hanno mostrato come l’Intelligenza Artificiale possa predire con tre anni di anticipo la comparsa del tumore al pancreas, uno dei più letali.

Quanto alle differenze nell’organizzazione del lavoro rispetto all’Italia, la risposta è chiara: “Sì, una: la meritocrazia”, spiega Renato. La sensazione in Italia, soprattutto guardando la classe dirigente, era che “andassero avanti principalmente i furbetti e non necessariamente chi era più preparato o lavorava di più”. Negli Usa vieni “costantemente promosso, premiato, incoraggiato, viene riconosciuto quando lavori di più o porti risultati migliori. Non è un caso che sia io che mia moglie, che è medico specialista in neurologia e direttore del centro cefalee dell’Università del Massachusetts, ricopriamo ruoli dirigenziali prima dei 40 anni”. Eppure, per Renato, alcune lauree italiane in Informatica non hanno nulla da invidiare a quelle offerte da atenei come Mit, Harvard, Stanford. “L’Università della Calabria mi ha dato le basi di Informatica per essere competitivo al livello mondiale”, aggiunge.

La grande differenza è nel dottorato. “In America le classi di dottorato sono davvero avanzate. Quando se ne finisce uno di alto livello negli Stati Uniti si è tra i massimi esperti del settore: compagnie, università e centri di ricerca competono offrendo alti stipendi e condizioni lavorative estremamente favorevoli pur di assumere i talenti migliori”. È vero – aggiunge – tutto costa di più in Massachusetts, ma gli stipendi sono decisamente adeguati. “Chi lavora nel campo software o in quello dell’AI può chiedere un salario lordo base tra i 90mila e i 110mila dollari appena laureato e senza esperienza”. In California i numeri sono “decisamente superiori”. La tassazione è semplice: per i numeri sopra è del 24%, cresce gradualmente e con 540mila dollari annui è del 37%. Il motivo per cui le tasse sono così basse è che “le pagano tutti”, spiega.

Tra dieci anni i suoi figli, Alice e Cesare Mark, avranno 14 e 17 anni: “Staremo scegliendo insieme l’Università. Magari verranno a Milano”. Per Renato l’unica condizione che lo spingerebbe a rientrare è il merito. “L’Italia è bellissima: per le vacanze è imbattibile”. Gli Usa sono “un Paese capace di reinventarsi costantemente e imparare da ogni sbaglio: Trump è durato quattro anni, Berlusconi in Italia venti”. Per il resto, conclude, “dormo sereno sapendo di averci provato e aver trovato tante porte chiuse in Italia”.

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