Il 25 luglio di ottant’anni fa il Gran Consiglio del Fascismo, massimo organo collegiale del regime, si riunì e votò l’ordine del giorno presentato dal ministro Dino Grandi, che prevedeva la sfiducia a Benito Mussolini. Alle 2.30 del mattino, 19 componenti su 27 si dissero favorevoli e solo uno si astenne. Di fatto, il fascismo era finito e re Vittorio Emanuele III fece arrestare il Duce, destituendolo dall’incarico di capo del governo, le cui sorti furono affidate al Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Per liberare il Paese dal regime e dall’occupazione nazista, tuttavia sarebbero dovuti trascorrere quasi altri due anni, mentre solo nel giugno del 1946 gli italiani avrebbero scelto la repubblica come forma di governo e di dotarsi di una nuova carta costituzionale. Il voto del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 fu l’inizio della fine del fascismo e di due anni che cambiarono le sorti dell’Italia.

Quel 25 luglio 1943, spiega Alessandra Tarquini, docente di storia contemporanea all’Università Sapienza di Roma a ilfattoquotidiano.it, “avvengono due fatti decisivi: la votazione dell’ordine del giorno Grandi e il successivo arresto di Mussolini. Tutto ciò si spiega con lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio e il bombardamento di Roma del 19 luglio. Ciò accade nel momento in cui le forze militari italiane mostrano tutta la loro fragilità. Sono due eventi diversi, che contribuiscono alla caduta del fascismo; soprattutto il secondo, l’arresto del Duce, determina quello che noi possiamo chiamare un vero e proprio colpo di Stato“.

Professoressa Tarquini, qual è stato il ruolo del re? Come si è spesso letto sui libri di storia, il sovrano non brillava per essere un decisionista, ma quella volta sembrò avere le idee più chiare.
Gli elementi di maggiore ambiguità in quel caso erano più appannaggio del Gran Consiglio del Fascismo piuttosto che di Vittorio Emanuele III, come ha sottolineato Emilio Gentile nei suoi studi recenti. L’organo che si riunì il 25 luglio, votando l’ordine del giorno Grandi e approvandolo a maggioranza, certo non aveva come obiettivo la destituzione di Mussolini e di far crollare il fascismo. Al contrario, la proposta era a mettere in discussione il dittatore, immaginando però un fascismo ancora con il Duce, ma che prendesse un’altra strada, capace cioè di traghettare l’Italia fuori dalla crisi. I gerarchi che fino a due minuti prima erano stati dei fedelissimi di Mussolini, all’indomani della seconda guerra mondiale accreditano una versione dei fatti secondo cui il fascismo darebbe caduto proprio in virtù di quel voto notturno del 25 luglio. In realtà non è così: il fascismo cadde perché il re fece arrestare Mussolini. Da tempo i militari intorno al sovrano cercavano infatti l’occasione buona per sbarazzarsi del Duce, senza contare che c’era anche chi voleva ucciderlo. Quindi l’elemento decisivo è la scelta del re, ovvero il fascismo non cade per l’ordine del giorno di Grandi, il quale rappresenta la crisi del regime; perfino Mussolini si rendeva conto che la situazione non era più gestibile. Certo il Duce poteva intervenire sul voto del Gran Consiglio, poiché era a conoscenza dell’ordine del giorno, ma non lo fece, poiché ben consapevole della crisi del fascismo. In pratica si sentiva un uomo finito.

Quindi il regime aveva esaurito la sua spinta?
Diciamo che il 25 luglio rappresenta il precipitare della crisi dovuta alle sorti della seconda guerra mondiale. In quel momento l’Italia è già un Paese occupato dagli Alleati, con tutti i problemi legati alle vicende del conflitto. Questo è l’elemento che determina la critica dei gerarchi a Mussolini. Loro volevano salvare il fascismo, salvare Mussolini, prendendo però un’altra strada. Chiariamo bene che i gerarchi non erano degli antifascisti. Sono stati dei fedelissimi di Mussolini che, all’indomani del 25 luglio, rappresenteranno se stessi come i salvatori della Patria in senso antifascista. Ma le cose, adesso è chiaro, sono andate diversamente. E ciò lo si comprende dalla reazione degli italiani.

Ovvero? Che accadde all’annuncio della destituzione di Mussolini?
Le piazze italiane si riempirono di manifestazioni di gioia e di liberazione. Molti pensarono che fosse finita la guerra, ma in realtà era finito il fascismo. E c’è di più: gli italiani che dimostravano giubilo per l’arresto del Duce non erano gli stessi che fino a qualche tempo prima partecipavano alle adunate? Allora, qual è il rapporto degli italiani col fascismo? Bisogna considerare che l’Italia è stato un Paese profondamente fascista e che nella dinamica del 25 luglio i partiti antifascisti non ci sono. Riprenderanno la loro azione dopo il 25 luglio, ma non prima, nel senso che tali partiti non sono direttamente responsabili della fine del fascismo. Però diverranno molto importanti dopo.

E negli 80 anni successivi a quel voto notturno e all’arresto del Duce, quali sono i temi portanti della storia degli italiani?
È sempre complicato immaginare dei confronti tra contesti così diversi, tuttavia io credo che il 25 luglio 1943 lasci due grandi questioni, ovvero l’ambiguità e il nostro senso di responsabilità. Vediamo la prima: il 25 luglio Badoglio diventa capo del governo e l’8 settembre viene reso noto l’armistizio. L’ambiguità è data dal fatto che l’Italia tratta su due fronti diversi. Da un lato dichiara di proseguire la guerra a fianco dell’alleato tedesco, contemporaneamente iniziano le trattative difficoltose con gli Alleati, che non si fidano dell’Italia, per uscire dalla guerra, come dimostrato chiaramente da Elena Aga Rossi nei suoi lavori. L’ambiguità della classe politica italiana è evidente, anche se dobbiamo considerare anche tutti gli altri elementi che concorrevano a quella situazione. E qui si introduce il concetto di responsabilità che ognuno è chiamato ad assumersi nel momento in cui fa delle scelte.

Oggi come possiamo considerare le due questioni?
Intanto pensando che la peggiore delle democrazie è sempre migliore di una dittatura. Pare scontato, ma in realtà non lo è. Inoltre la storia ci ricorda l’importanza dell’assunzione di responsabilità, di scegliere. Il re, che tante volte non l’aveva fatto, all’indomani del voto del Gran Consiglio invece sceglie di cambiare strada. Le azioni, a qualsiasi livello, sono sempre decisive; non tutti abbiamo le stesse responsabilità, ma ognuno di noi prima o poi è chiamato a scegliere. Come avvenne l’8 settembre, quando il Paese si spaccò e ognuno scelse da che parte stare. La responsabilità della scelta è un fatto che può essere attualizzato e ieri, oggi, domani siamo sempre il risultato delle nostre scelte.

Dopo 22 anni di regime, periodo durante il quale non lo avevano potuto fare, nel 1946 gli italiani tornarono a scegliere.
Sì, fu intrapresa la strada per la costruzione di un nuovo Paese, con tutti i suoi limiti, che fosse repubblicano, democratico, pluralista e antifascista. Dentro queste etichette c’era un intero Paese con tutte le sue dinamiche politiche e sociali, che liberamente sceglieva da che parte stare. A noi resta tuttavia il compito di interrogarci su come come ambiguità e responsabilità possano coesistere, su come siamo veloci ad adeguarci a chi vince. Non è un appello moralistico, ma più storico, per capire cioè il senso di un percorso che abbiamo fatto.

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