Sul tavolo c’è sempre lui, il corpo delle donne. Anzi, i corpi delle donne. Oggetto eterno, e mai soggetto, di un’esecuzione a fuoco lento che attraversa i secoli e non fa progressi. E poi a tenergli compagnia c’è un convitato di pietra nuovo ma non nuovissimo seduto al ristoro dell’insulto: l’autoassoluzione di chi oltraggia, supportata dall’ottica ribaltata di chi commenta e giustifica.

L’ultima in ordine di tempo è quella andata in scena, ma non in onda, a Fukuoka nel corso dei mondiali di tuffi. Qui il corpo delle donne si fa protagonista non per meriti sportivi, che pure ci sarebbero stati, ma attraverso le frasi sessiste e razziste pronunciate da un telecronista Rai che si è lasciato andare con un collaboratore tecnico a espressioni offensive che di goliardico hanno ben poco. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: il colpo è stato battuto perché le procedure di contestazione disciplinare e la posizione di azienda e sindacati che hanno rimesso in campo i paletti della deontologia professionale e dell’etica laddove erano stati violentemente sradicati ci sono state e ci sono state subito.

Ma quel che colpisce oggi, a distanza di ore, è l’assoluta leggerezza dell’autoassoluzione d’ufficio. Quasi che un oltraggio sia meno oltraggioso, un insulto sia meno insultante, una violenza sia meno violenta se a latere viene apposta una generica discolpa che suona più o meno così: “Prendo le distanze da quello che mi viene contestato” è la frase che avrebbe pronunciato nell’immediato il protagonista dell’episodio. Vale la pena restare qui. E provare a capire in che contesto siamo finiti se chi offende ritiene poi di potersi smarcare semplicemente prendendo le distanze. Da chi? Da da se stesso, da qualcuno che ha parlato al posto suo?

Un caso isolato non è. Solo una settimana fa, dopo la bufera che l’ha coinvolto per la frase di un suo articolo pubblicato da Libero sul caso La Russa jr offensiva ai danni della 22enne che ha denunciato, il giornalista Filippo Facci – al quale dopo l’episodio la Rai, dando un indiscutibile segnale, ha cancellato il nascituro programma Facci vostri – mette per iscritto le sue considerazioni parlando di “sconfitta professionale che consiste tipicamente nell’illudersi che (i lettori, ndr) leggano tutto l’articolo, conoscano i tuoi precedenti, abbiano cognizione di causa prima di attribuirti odiosi reati: che insomma non ti trasformeranno in carne da cannone”.

Eccola di nuovo, l’autoassoluzione, in questo caso arricchita dal ribaltamento dell’ottica che colpisce e che non può passare. Non è chi legge ad attribuire odiosi reati, posto che questi ultimi può riconoscerli solo un giudice, ma è nelle parole pronunciate l’errore che non si vuole riconoscere. Che non è professionale, ma profondamente ontologico, intimo. Ognuno pronuncia i concetti che nutre. Non esce fuori quel che non è dentro. Il problema è un altro: è leggerli pubblicati. Appelliamoci ai diritti del lettore, che sopra ogni cosa ha il diritto di leggere buoni scritti.

Distanze, ribaltamento dell’ottica. Non può essere un caso. Deve esserci un comune sentire deviato che deforma e distorce la realtà quando in campo c’è il corpo delle donne. Un elemento arcaico ancestrale che dal pensiero covato si fa parola scritta e che purtroppo si trasforma in testimonianza di un’epoca. Nell’aria c’è ancora l’eco della sentenza sull’omicidio di Carol Maltesi, quella che il semiologo Bartezzaghi ha definito una pronuncia “sessista già nel linguaggio”, visto che i giudici della corte d’Assise hanno definito “uomo innamorato” che si è “sentito usato” l’omicida Davide Fontana, a cui non hanno comminato l’ergastolo per aver ucciso e smembrato senza pietà il corpo dell’ex fidanzata. Indicata, lei vittima, come “disinibita”.

Non si aggiungeranno in questa sede parole a quelle dei giudici, già esaustive.

Eccolo dunque il ribaltamento dell’ottica, quello che anni addietro portava certa compagine deteriore ad attribuire alle vittime di violenza colpe che non avevano solo perché indossavano jeans attillati o gonne corte. Quasi che in spiaggia fosse concesso in automatico a tutti gli uomini di palpeggiare una donna per il solo fatto che quella sia in bikini.

Il concetto del “te lo sei meritato” e della violenza subita due volte sono ancora materia di lotta. Come quella resiliente di chi encomiabilmente permette che Processo per stupro (1979) possa essere oggi rivisto integralmente su archive.og. La magistrale arringa di Tina Lagostena Bassi risulta infatti insostenibile per i parenti degli aguzzini, i quali ottengono tramite i loro legali che la versione integrale non venga trasmessa da chi pure ne ha i diritti. Motivo: si sentono lesi dalla riproduzione del documentario. I colpevoli, loro, si sentono lesi. Tanto per parlare di ribaltamento dell’ottica.

Paese particolare, il nostro. Che non esce dal retaggio del buco della serratura e che è bravo a fare le pulci a casa degli altri, soprattutto quando la politica si sporca di scandalo. E poco importa se lo scandalo è astratto, tanto è fuori dai nostri confini. Era solo l’anno scorso quando l’allora premier finlandese Sanna Marin per giorni guadagnava prime pagine perché aveva ballato in modo definito “piuttosto amichevole con almeno tre uomini diversi”. Uno scandalo. Addirittura nel pieno delle sue funzioni. Dimissioni chieste, invocate, urlate. Marin giovane, brava e con l’aggravante di essere bella, ma soprattutto donna. Peccato che quella stessa Marin fosse anche una persona, con una vita privata, la cui unica colpa – oddio – era stata quella di ballare. Meno male che nella nostra memoria collettiva c’è sempre il Bagaglino, a ricordarci tanto.

Non vorremmo mai ascoltare quel che si potrebbe dire oggi dell’Italia, in cui la seconda carica dello Stato si è espressa sul caso La Russa jr preferendo la parola al silenzio e aprendo la strada – di fatto – all’attesa frase della presidente del Consiglio: “Io non sarei intervenuta”. Un colpo di spugna che con quattro parole ha spazzato via anche il tentativo della titolare della Famiglia di comprendere un padre. Che però, incidentalmente, è anche una carica istituzionale.

Va capito quindi da dove parte questo processo autoassolutorio che da lontano arriva a Fukuoka per approdare vedremo dove. Sono i giorni dell’uscita del film Barbie. Va visto, si dice. Lo vedremo, si replica.

Intanto io rivedo a distanza di qualche giorno le immagini festose delle Charlie’s Angels – come si sono definite Sabatini, Carioni e Contraffato – le tre atlete paralimpiche che si sono aggiudicate tutto il podio con una tripletta da urlo per l’Italia nei cento metri piani T63, rifletto che su quei tre corpi fortissimi si è detto davvero poco se non niente. Un prodigio vero quei corpi, ricondotti al trionfo dopo un’offesa. Riportati alla luce dopo il buio di un oltraggio. Eppure su quei corpi e sul loro riscatto nulla si è detto, nulla si è scritto.

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