Qualche riflessione a freddo sollecitata dalla manifestazione Cgil del 24 giugno in difesa del diritto alla salute.

La situazione sanitaria italiana che emerge dal rapporto internazionale Ocse Health at Glauce 2022 è solo parzialmente rappresentabile dalle medie degli indicatori tematici con i quali rimane abbastanza allineata. Queste infatti, osservandone la composizione, mostrano scostamenti molto elevati dei valori che le compongono e quindi una forte eterogeneità di offerta sanitaria quali-quantitativa tra diverse aree geografiche che qualsiasi autonomia regionale differenziata non potrebbe che aggravare, in quanto maggiormente pesata sulle rispettive risorse territoriali e non sugli effettivi bisogni.

Inoltre, l’assenza di ogni programmazione regolatoria, tra uscite fisiologiche di personale dal Servizio sanitario per pensionamento ed entrate di medici specialisti formati dalle università, ha esacerbato ulteriormente le criticità già esistenti, prospettando preoccupanti trend declinanti di efficienza. Le liste di attesa per visite/accertamenti specialistici faticano infatti a soddisfare anche le emergenze più conclamate, spingendo ormai ogni diversa domanda sanitaria, per quanto ampiamente motivata, verso i servizi a pagamento della sanità pubblica o privata.

Un po’ meglio reggono i ricoveri ospedalieri, passando tuttavia attraverso la visita a pagamento presso i notabili dei rispettivi reparti, oppure fruendo delle immancabili relazioni personali che rimandano alla gerarchia socio-economica e culturale in cui è stratificata la nostra popolazione. In ogni caso i costi del ricovero non vengono ancora ribaltati sui pazienti, come ormai avviene quasi sempre per gli anziani delle rsa. Insomma, il ricovero ospedaliero resiste, ma i suoi segni di cedimento sono sempre più evidenti. E quando questo accadrà su ampia scala, la fine del SSN impatterà drammaticamente sulla popolazione, esacerbando in forma esponenziale ogni diseguaglianza sociale che aprirà inevitabilmente a pericolosi conflitti.

Le ragioni di questa corsa lungo un piano inclinato sono numerose, non da ultimo l’affidamento al privato di molte prestazioni sanitarie, soprattutto di quelle per esso più remunerative ed invece il contestuale trattenimento nel pubblico di quelle più onerose e poco appetibili per il mercato, come il pronto soccorso, la rianimazione e soprattutto il trattamento delle cronicità di una popolazione anziana sempre più numerosa. Ma chi ha deciso questa ripartizione non è stata la committenza pubblica, bensì l’affidatario privato. Una dinamica opposta a qualsiasi ortodosso scenario di gestione aziendale tanto invocata a risanamento del sistema.

A ciò si aggiunge la possibilità delle libera professione sia in struttura (intra-moenia) che fuori struttura (extra-moenia), anche per i direttori dei reparti ospedalieri (ex primari) che indirizzano la propria clientela verso il privato convenzionato dal quale ricevono generosi benefici economici. Un macroscopico conflitto d’interesse, quindi una fine ampiamente annunciata per il nostro SSN.

Certamente una sanità privata può convivere, anche con reciproca utilità, con quella pubblica, ma nella rigorosa separazione dei ruoli. In altri termini, il privato faccia il privato ed il pubblico faccia il pubblico. L’ibridazione già presente in nuce nel nostro SSN a partire dai medici e pediatri di famiglia che non sono né liberi professionisti e né dipendenti, nonché la concessione ai medici dipendenti del SSN della libera professione, ha generato “mostri”.

Il SSN di fronte alla crisi di risorse e personale non ha potuto disporre di alcuna riserva di compensazione. L’aumento dei tempi di attesa non ha potuto essere contenuto dal maggior impegno del personale medico sempre più orientato alla libera professione. L’offerta crescente di tecnologia diagnostica non ha potuto trovare riscontro nei medici di famiglia, prigionieri di un ruolo anacronistico perché privi della disponibilità immediata dei più moderni presidi diagnostici, inchiodati al mitico “dica trentatrè” e trasformati obtorto collo in “data manager” per referti elaborati da altri, sempre più spesso alienati dall’esercizio della professione medica.

Meglio quindi per i pazienti recarsi al pronto soccorso in codice bianco, o fortunosamente verde, attendendo anche tutta una notte, ma per uscirne con una diagnosi certa e magari con qualche indicazione terapeutica, per le quali “la prassi” avrebbe comportato invece mesi per prenotazioni estenuanti al call center che alla fine non avrebbero neppure evitato la visita a pagamento presso lo specialista. Il pronto soccorso trasformato quindi in una atipica unità di medicina generale, snaturato della propria mission originaria, con il rischio di non poterla più garantire, come dimostrano le scene di pazienti ammassati in queste strutture.

Che fare allora? Decidere, cioè letteralmente dividere, il pubblico dal privato. O di qua o di là, anche in alternanza, ma mai contemporaneamente. Sostituire quindi la Convenzione nazionale dei medici di famiglia con un rapporto di dipendenza ed esclusività verso il SSN che riorganizzerà questo personale in strutture poliambulatoriali, adeguatamente dotate di attrezzature diagnostiche, in grado di separare i pazienti che possono essere seguiti a domicilio da quelli che necessitano di un ricovero ospedaliero ordinario o d’urgenza accedendo al PS. Solo una filiera così ristrutturata, che prenda totalmente in carico il paziente sotto il profilo sia sanitario che amministrativo, garantendo quindi la più stretta continuità ospedale-territorio, potrà evitare stress da call centre e tempi di attesa sempre più inconciliabili con quelli della diagnosi e terapia.

Stesso trattamento per i medici pubblici: fine della libera professione intra ed extra-moenia. Libera competizione tra pubblico e privato che volendo si avvarrà del ricorso al sistema assicurativo. Anche allineando gli stipendi del personale sanitario, medico ed infermieristico, ai più alti standard europei indicati nel richiamato rapporto Ocse, si otterrebbe sia un abbattimento dei costi che un aumento di efficienza a parità di prestazioni erogate. Progressivamente si riportino “in house” le prestazioni esternalizzate incrementando strutture ed assunzione di personale. E il sistema privato-assicurativo compèta sul mercato finalmente “da solo”, senza contare sui rimborsi di “Pantalone”, ottenuti da parassitarie convenzioni con il pubblico.

Pensieri in libertà per una riforma della sanità pubblica da costruire fin d’ora per la prossima tornata di elezioni nazionali. Non è mai troppo presto.

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