Spesso mi domandano se, dopo decenni di femminismo, si possa affermare che il patriarcato sia una realtà pressoché archiviata, e se quindi sia legittimo parlare di cultura postpatriarcale, come si usa dire. Sono molto sospettosa con i prefissi, perché vedo che vengono usati facilmente per liquidare pensieri e visioni scomode, o ritenute vecchie e superate: il femminismo è sovente tra queste.

Se, come fece Desmon Morris ne La tribù del calcio per raccontare l’aspetto profondamente ancestrale (e patriarcale) del rito della partita, una creatura dello spazio arrivasse sulla Terra in questi giorni e guardasse alle relazioni tra i due sessi avrebbe difficoltà a vedere donne e uomini vivere in armonia, uguaglianza e reciprocità. In particolare in Italia dove, nell’ultimo mese, la cronaca ha registrato diversi femminicidi efferati, una sentenza che sancisce che la molestia sessuale scatta solo dopo dieci secondi, e un’altra, ultima in ordine di tempo ma non nuova nel suo genere, che di fatto accusa la vittima. La vittima in questione è una donna uccisa e fatta a pezzi, Carol Maltesi.

Davide Fontana, il carnefice, viene dipinto nella sentenza come “innamorato“. Lei, definita (sempre nella sentenza) “disinibita”, lo stava per lasciare. Lui non regge l’abbandono, quindi la uccide, ne fa a pezzi il corpo, lo congela in un frigo ordinato via internet. Dettagli degni di una pellicola horror, invece è andata così, e nella sentenza il movente dell’assassino è l’abbandono. Il passaggio della sentenza che sottolinea che “per Fontana l’omicidio era un modo per venire fuori da questa condizione di incertezza e sofferenza non più sopportabile, innescata dalla decisione della stimolante donna amata di allontanarsi da lui” è lo specchio di come il radicamento della cultura patriarcale sia nemmeno lontanamente prossimo a scomparire. E se nelle aule di giustizia questo è il sentire, come ci si può aspettare che il sentire dei bar, delle scuole, della strada sia diverso e opposto? Le sentenze non fanno solo giurisprudenza, sono cultura, indicazione di “giustizia” per la collettività.

Non è la prima volta, non sarà purtroppo l’ultima, ma che la rivittimizzazione venga dalle aule di tribunale fa venire i brividi, così come dovrebbe creare sgomento la manifestazione di empatia verso il carnefice. A memoria corrono alla mente altre aberrazioni giuridiche: la sentenza sui jeans, quella sulle attenuanti etniche, quella che se sei sotto l’effetto di alcool o droga la tua alterazione non è un’aggravante ma anzi un’invito alla violenza sessuale. Come è possibile che chi le ha scritte non senta il peso della responsabilità nel mettere nero su bianco, con l’autorevolezza del ruolo giudicante, l’asseverazione della misoginia?

Fa impressione che suonino come dette ieri, profondamente calzanti all’attualità, le parole pronunciate nel 1979 dall’avvocata Tina Lagostena Bassi nel celebre Processo per stupro. Lagostena Bassi, allora, disse forte e chiaro a milioni di persone che la ascoltarono attraverso la tv di stato: l’unico reato in cui la vittima diventa imputata è la violenza sessuale, nessuna altra vittima di reato subisce questo trattamento.

Nel caso di Carol Maltesi l’asticella della violenza è all’ultimo livello: si tratta di femminicidio, ma chi ha emesso quella sentenza ha ritenuto che nemmeno la morte fosse sufficiente per fermarsi prima di fare scempio della vittima, facendo apparire l’assassino come la vera parte lesa. Dacia Maraini ha dichiarato in tv in questi giorni che l’amore nel tempo cambia, si trasforma e può finire, ma se è amore vero, quando cessa, si converte in amicizia, vicinanza, affetto, perché entrambe le persone hanno condiviso corpo, tempo, emozioni, vita e storia. Se diventa odio, perché lo stupro e la violenza fino all’infliggere la morte sono odio, allora non era amore. Nemmeno all’inizio. Perchè l’amore non c’entra con la violenza. Mai, in nessun modo e caso, senza attenuanti, sfumature, esitazioni.

Bisogna ricominciare da qui, con le persone giovani. Dicendo agli uomini che si è uomini forti, uomini veri e uomini giusti anche (e soprattutto) quando si accetta di essere abbandonati da una donna, perché se ne accetta la libertà.

“Aveva tante idee, era un uomo d’avanguardia, si vestiva di nuova cultura, cambiava ogni momento, ma quand’era nudo era un uomo dell’800”. Lo scrisse, e cantò, Giorgio Gaber nel 1973, la canzone si intitolava Un’idea. Il senso del testo è che si può apparire persone contemporanee ma, nel profondo, come in questa sentenza, si resta abissalmente inchiodati alla misoginia e al sessismo di tempi che pensiamo, sbagliando, ormai alle spalle.

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