Sabato pomeriggio i portavoce di Facebook e Google hanno fatto sapere che i due gruppi avevano accolto con favore l’accordo raggiunto a Londa dai Paesi del G7 su una aliquota minima globale da applicare alle multinazionali. Un indizio abbastanza chiaro del fatto che quel via libera preliminare non è la rivoluzione nel senso dell'”equità e giustizia sociale” festeggiata dal ministro del Tesoro britannico Rishi Sunak e dagli omologhi di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Usa. Secondo Gabriela Bucher, direttore esecutivo di Oxfam International, il G7 “aveva la possibilità di mettersi al fianco dei contribuenti, invece ha scelto di stare al fianco dei paradisi fiscali“. Perché, per rendere la proposta potenzialmente digeribile per gli altri Paesi industrializzati a partire dai membri dell’Ue che prosperano grazie ai trattamenti di favore riservati alle multinazionali (Cipro, Irlanda, Lussemburgo e Olanda), l’asticella è stata abbassata dal 21% ipotizzato in aprile ad “almeno il 15%“. Poco sopra l’aliquota di favore irlandese, molto sotto l’Ires pagata dalle pmi italiane. Per non dire di quanto versa al fisco un normale lavoratore dipendente. “Piacerebbe anche a me pagare appena il 15 per cento di tasse”, commenta non a caso dal Festival dell’Economia di Trento Thomas Piketty, che definisce “scandaloso” l’accordo.

L’economista francese Gabriel Zucman, teorico della necessità di una tassa del 2% sui grandi patrimoni, membro della Commissione indipendente per la riforma della tassazione aziendale internazionale (Icrict) e direttore del nuovo Osservatorio europeo sulla tassazione, è un po’ più ottimista: per lui l’intesa è effettivamente “storica” perché è la prima volta che i Paesi si accordano su un’aliquota minima. Ma è anche “inadeguata“. Il motivo lo spiega, numeri alla mano, nel primo rapporto dell’Osservatorio, firmato con Mona Barake, Theresa Neef e Paul-Emmanuel Chouc. Il report calcola tra il resto quante risorse perderanno i Paesi Ue se durante le prossime tappe del negoziato – il G20 di Venezia a luglio, poi i colloqui in sede Ocse – l’aliquota resterà al 15% invece che essere portata a un più dignitoso 25%, il livello proposto anche dall’Icrict. La risposta conservativa è almeno 120 miliardi di euro, considerando solo le tasse aggiuntive dovute ad ogni Paese dalle “sue” multinazionali che oggi registrano i profitti altrove riuscendo così a diminuire l’esborso fiscale complessivo. Infatti un accordo internazionale su un’aliquota minima del 25% consentirebbe all’Unione europea di aumentare i suoi ricavi fiscali di quasi 170 miliardi, “un incremento del 50% rispetto all’attuale gettito da corporate tax”. La Germania ci guadagnerebbe 29 miliardi, la Francia 26, la Spagna 12,4, l’Italia 11,1. Ma con l’aliquota al 15% il gettito aggiuntivo complessivo “ammonterebbe a soli 50 miliardi“.

Per Roma significa accontentarsi di 2,7 miliardi contro gli 11,1 che lo Stato potrebbe incassare con l’aliquota al 25%. Interessante l’elenco (non esaustivo, l’Osservatorio si è limitato a selezionare un campione) delle aziende che sarebbero chiamate a colmare il loro “tax deficit”, cioè la differenza tra quello che versano attualmente e quello che dovrebbero pagare in un mondo con un’aliquota minima globale in vigore. Ci sono ovviamente Enel ed Eni, con – rispettivamente – 356,3 e 171,5 milioni di imposte aggiuntive dovute, in caso di aliquota al 25%: per Enel si tratta del 18,3% di quello che paga ora, mentre per il Cane a sei zampe il versamento si fermerebbe al 3,6% delle imposte attuali. Ma a passare alla cassa dovrebbero essere soprattutto le banche: in media, gli istituti europei dovrebbero riconoscere agli Stati 44% in più. Tra quelli italiani, il conto più salato arriverebbe a Intesa Sanpaolo: 672 milioni, ben il 41% del suo carico fiscale attuale. Subito dietro Unicredit, con 293 milioni in più dovuti a fronte dei 901 che paga adesso.

Il conto potenziale (e in parallelo la perdita derivante da un accordo al ribasso) sale se al gettito dovuto dalle multinazionali domestiche si aggiunge il secondo pilastro dell’accordo, quello che riguarda la tassazione dei profitti in ognuno dei Paesi in cui i grandi gruppi effettivamente operano. E che chiama quindi in causa, per esempio, i colossi statunitensi del web. Ma, secondo l’Osservatorio, è il primo fronte quello potenzialmente più remunerativo, perché i gruppi extraeuropei generalmente realizzano la maggior parte dei ricavi fuori dall’Unione. E infatti una prima stima, basata sull’ipotesi che Bruxelles si muova in autonomia senza attendere un accordo con il resto del mondo, quantifica in “soli” 12,3 miliardi (1,1 per l’Italia) i potenziali introiti fiscali per i 27 se iniziassero ad applicare un’aliquota del 25% al tax deficit dei gruppi Usa. Più 34,4 miliardi che potrebbero arrivare da imprese di altri paesi extraeuropei. Se passasse la proposta concordata al G7, il gettito sarebbe ovviamente anche in questo caso molto inferiore, e non solo a causa dell’aliquota più bassa: i ministri hanno stabilito che verrebbe applicata solo alle imprese con margini superiori al 10% e solo sul 20% dei profitti che eccedono quella soglia. Un meccanismo che è difficile definire severo. Eppure Cipro e l’Irlanda sono già sulle barricate. Il ministro delle Finanze cipriota Constantinos Petrides ha preannunciato l’intenzione di porre il veto al Consiglio Ue, dove le decisioni in materia fiscale vanno prese all’unanimità.

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