600 morti. Mentre il bilancio del più grande naufragio del Mediterraneo raggiunge, cifre da capogiro, il governo italiano si dibatte, come Laocoonte, fra le fanfare della “sostituzione etnica”, la promessa elettorale del ‘blocco navale’ e il Def che chiede almeno 500.000 immigrati.

In queste ore in cui nessun politico spende una lacrima per i sommersi del Mar Egeo, può essere utilissima la lettura di Welcome to Italy, il diario di un immigrato del Mali di 32 anni, che si chiama Sadyo Konate, parla tre lingue e lavora, a Savona, come mediatore culturale. L’ho incontrato, presso “Leggere in cerchio” un gruppo di donne, che tiene accesa la fiaccola della cultura a pochi passi da una delle piazze malfamate della città.

Welcome to Italy, scritto in un italiano quasi perfetto, racconta il viaggio che ha portato Sadyo dalla Libia in Italia e dal terrore della morte alla piena integrazione. Alcune pratiche dei trafficanti per alleggerire i passeggeri e imbarcarne di più, descritte da Sadyo, fanno pensare al termine “bestiame” che i nazisti usavano per gli ebrei: “Ricordo che ci hanno portato in un posto, a un’ora da Tripoli, che chiamavano ‘connection’ – racconta Sadyo – dove trattenevano le persone per uno a tre giorni senza mangiare. Si beveva solo acqua, allo scopo di farci perdere peso per alleggerire anche quello del gommone e fare in modo che, nel viaggio, non avessimo dei bisogni”. Un altro episodio fa pensare alle cataste di oggetti con cui da Boltanski ha “rappresentato” i genocidi: prima dell’imbarco i libici ordinavano ai migranti di lasciare cinture, anelli, braccialetti e qualsiasi materiale metallico dicendo che era per la loro sicurezza sul gommone: “Per proteggervi – dissero – da chiunque sotto l’effetto della fame, della paura, o di un’allucinazione, decida di farla finita. Se lo fa buttandosi nel mare, sarà un bene per voi, ma se decide di bucare il gommone, allora morirete tutti quanti”.

Sadyo lasciò il Mali nel 2012 quando studiava per la maturità e un golpe causò la chiusura delle scuole. Partito per cercare lavoro in Algeria, non è più tornato. Nel 2014 si è imbarcato dalla Libia: “Eravamo in fila indiana all’imbarco – scrive – e chi ne usciva, riceveva una bastonata come se fosse un animale da indirizzare”. Anche se fossimo riusciti a sopravvivere e arrivare, avremmo perso l’uso delle nostre gambe”. L’ultima frase rende bene la dimensione di costrizione “animale” in cui viaggiano i migranti, ammassati, senza la possibilità di muoversi per giorni e notti interminabili.

A un certo punto Sadyo decide di alzarsi in piedi e cedere la sua felpa e il suo posto a un ragazzo che, in piedi, vomitava, con le mani tremanti dal freddo e le gambe che non lo sostenevano più. Quando il gommone inizia a imbarcare acqua è il panico. “Eravamo tutti convinti che fosse arrivata la nostra ora: moriremo tutti!”. Salvato poco dopo da un nave italiana, quando lui e i suoi compagni erano allo stremo, Sadyo finisce in una struttura di accoglienza in Valbormida (Savona) e lì conosce i primi segni di intolleranza. “A Cairo, davanti alla struttura, c’era scritto sul muro di fronte al cancello: ‘porco negro’. Non si poteva uscire dal cancello senza vederlo. Con l’andare del tempo, le parole sono state cancellate, ma da questo abbiamo incominciato a capire la tensione sociale intorno a noi”.

Lungi dall’attribuire tutte le colpe delle migrazioni al “colonialismo” il diario di Sadyo è originale perché cerca di comprendere anche il punto di vista degli altri: “ È possibile che l’integrazione non sia stata un successo per tutti, ma un grande sforzo è stato fatto dalla parte ospitante – scrive – purtroppo, con tutto questo, noi migranti, non perdevano occasione per lamentarci di cose insignificanti come il cibo dicendo addirittura: ‘Il cibo non è buono; voglio cibo africano’. Questa frase si sentiva quasi ovunque sui canali tv. La gente si era offesa a causa di queste lamentele inopportune. E chi non si sarebbe offeso in una tale situazione? Inoltre, alcuni migranti, nonostante i posti offerti e i settantacinque euro di ‘Pocket Money’, si permettevano di mettersi davanti ai supermercati, chiedendo l’elemosina. Addirittura alcuni ne facevano un lavoro. Pensando a tutto questo come potevamo non avere la gente arrabbiata nei nostri confronti? In certo senso, noi, migranti ci siamo fatti, in qualche maniera, odiare dagli italiani, da soli. Abbiamo svalutato l’aiuto che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto svanire la volontà di fare un ulteriore sforzo per colpa della nostra arroganza e delle nostre pretese. Ovviamente non tutti i migranti. Penso che sarebbe stato meglio dire: ‘noi migranti, ringraziamo tantissimo il popolo e lo Stato italiano per la loro ospitalità e vi chiediamo di non giudicare tutti i migranti, particolarmente quelli di colore, dai fatti e comportamenti di alcuni di noi, che noi condanniamo. I migranti vorrebbero avere una nuova vita in questo paese, e sappiamo che questo non può avverarsi senza la collaborazione, l’aiuto e la tolleranza dei suoi cittadini.»

Martedì 20 giugno, Welcome to Italy verrà letto in pubblico presso il CPIA, la scuola degli adulti, che grazie alla partecipazione dei suoi studenti ed ex studenti, condividerà i suoi progetti e le sue attività e si racconterà attraverso letture di poesie e prose, in occasione della Giornata del Rifugiato.

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