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22 anni dopo il delitto di Novi Ligure, Omar Favaro torna sulle cronache. Ecco cosa accadde nel villino: le 97 coltellate alla madre e al fratellino della fidanzata Erika De Nardo

Un duplice omicidio che nel febbraio 2001 sconvolse l'Italia. La premeditazione, l'efferatezza, il tentativo di depistaggio e poi il carcere e la successiva "nuova vita". Fino ai fantasmi, quelli della violenza familiare, che ritornano per uno dei due protagonisti, oggi 40enne

di Alessandra De Vita

97 coltellate impossibili da dimenticare: la mattina del 22 febbraio 2001 tutta l’Italia fu scossa da quanto era successo la sera prima, in un quartiere residenziale di Novi Ligure, in Piemonte. Erika De Nardo, allora 16enne, e il fidanzato Mauro Favaro detto “Omar”, assassinarono la madre e il fratellino di lei con un coltello da cucina. Susy Cassini e Gianluca avevano 42 e 11 anni. Oggi, Omar ne ha 40 e torna a riempire le pagine di cronaca. A distanza di 22 anni dal delitto di Novi Ligure, l’ex moglie lo accusa di violenza sessuale, maltrattamenti, minacce di morte, soprusi fisici e psicologici. “Ti sfregio la faccia con l’acido”, “ti mando su una sedia a rotelle”, “ti faccio la festa”. E ancora lui che le dice: “Fai schifo”, “non esci viva da qui”. Lo riporta il quotidiano Repubblica che fa risalire i fatti al periodo della pandemia. “È tutta una calunnia. Non pensavo che sarebbe arrivata a tanto, che avrebbe tirato in ballo il mio passato”; ha replicato Favaro tramite l’avvocato che lo assiste, Lorenzo Repetti. È chiaro il riferimento di Favaro al delitto di Novi Ligure che proviamo a ricostruire nei suoi punti salienti.

IL DELITTO – Sono le 19,30. Susanna Cassini rientra a casa col suo figlio più piccolo. Vive in un villino a due piani, nel quartiere del lodolino. Inizia una discussione dai toni forti tra la madre e sua figlia Erika a causa dei brutti voti di lei che frequenta il liceo scientifico Amaldi. Susanna teme anche per le sue frequentazioni. Erika prende un coltello e inizia a colpirla. Al piano di sotto c’è Omar, nascosto nel bagno del garage, dove aveva già infilato i guanti: l’accusa sarà, difatti, di omicidio premeditato. Sale su e li fa indossare anche ad Erika. Prendono Susy e continuano a colpirla. Inizia la mattanza. Lei prova a scappare e nella fuga spacca in due il tavolo della cucina, tanto è forte l’urto. Loro continuano a colpirla, è quasi finita. Omar ha poi dichiarato che prima di morire la donna li aveva implorati di risparmiare il figlio più piccolo che intanto era sceso giù dal piano superiore, richiamato da tutto quel caos. Erika colpisce anche lui – lo testimoniano gli schizzi del suo sangue sul cavo del telefono – poi lo accompagna con Omar al piano di sopra, come conferma la scia di sangue lasciata sulle scale. Lei gli dice che vuole immergerlo nella vasca per guarire la ferita, lui prova a scappare in camera ma viene raggiunto dai due. Lei intanto alza la musica a palla per evitare i vicini sentano. È un testimone troppo scomodo per Erika e Omar che decidono allora di eliminare anche lui.

Erika prova ad avvelenarlo facendogli bere della polvere topicida (poi rinvenuta vicino alla vasca da bagno), poi lo lancia nella vasca nel tentativo di affogarlo ma non ci riesce. Il bambino morde Omar nel tentativo disperato di difendersi ed è a quel punto che i due iniziano a colpirlo con furia omicida fino a togliergli la vita con 57 coltellate. Erika e Omar tornano al piano terra dove discutono se sia il caso di ammazzare anche il padre della ragazza che sarebbe rientrato da lì a poco. Omar è troppo stanco e le dice di fare da sé. Iniziano a lavare il sangue dalle stanze ma con scarsi risultati, lavano intanto le armi per cancellare le impronte. Un coltello viene buttato nel pattume, chiuso in un sacchetto con un paio di guanti, mentre l’altro resta sul pavimento della cucina. Alle 20:50 Omar va via in motorino uscendo dall’ingresso principale. Un passante lo vede, nota i pantaloni insanguinati e l’indomani informa i Carabinieri.

Il “DEPISTAGGIO” – Erika, ancora con i vestiti ancora sporchi di sangue, lascia dalla villetta passando dal garage e vaga lungo via Dacatra, invocando aiuto. Ha addosso ancora dei jeans che le aveva ricamato sua madre. Ai carabinieri dirà che due “albanesi” erano entrati in casa per una rapina e che la situazione è poi degenerata. Questa versione viene inizialmente considerata attendibile dagli inquirenti e rimbalzata dalla stampa: inizia la caccia agli extracomunitari in tutta Italia. Complice il fatto che la sera prima, a Novi Ligure, una donna è stata rapinata e stuprata nella propria abitazione. La colpa è dello straniero per l’opinione pubblica. Viene catturato un giovane albanese, in base all’identikit fornito dalla ragazza ma viene presto rilasciato perché il suo alibi regge benissimo, è perfetto. Nessun ingresso, secondo i rilievi, è stato forzato e nessun oggetto di valore è stato rubato. Neanche i due cani da guardia la sera prima hanno abbaiato, questo lo dicono i vicini. I dubbi ricadono sui due ragazzi che il 23 febbraio vengono convocati in Caserma. Anche le telefonate vengono intercettate: “Stai tranquillo, andrà tutto bene, non ci prenderanno”, dice Erika a Omar con raggelante tranquillità. Lei è lucida, serena, lo tranquillizza perché lui è nel panico. I Carabinieri li lasciano soli per qualche ora in una stanza (in cui erano installate microspie e telecamere nascoste) e ne ascoltano la conversazione: Erika e Omar ammettono senza saperlo di aver compiuto il massacro. Messi alle strette, si accusano a vicenda.

IL CARCERE – Il 14 dicembre, quasi un anno dopo, il tribunale per i Minorenni, a Torino, condanna con rito abbreviato Erika a 16 anni di carcere e Omar a 14. Erika e Omar, dopo l’arresto, vengono portati in due centri di detenzione minorili diversi. Secondo la pm Livia Locci, che dirige le indagini, la causa del delitto non è la droga come si era ipotizzato ma la distanza tra Erika e i suoi genitori. Anestesia emotiva, questo il movente. Trascorrono altri sei mesi, nel maggio del 2002 la Corte d’Appello conferma la sentenza di primo grado. Si legge nelle motivazioni dei giudici di “due omicidi che per efferatezza, per il contesto, per la personalità degli autori e per l’apparente assenza di un comprensibile movente si pongono come uno degli episodi più drammaticamente inquietanti della storia giudiziaria (e minorile per giunta) del nostro Paese”.

LA LIBERTA’ – Neanche un anno dopo, nell’aprile del 2003, la Cassazione rende definitive le condanne. Secondo le sentenze di condanna, la mente dei delitti è Erika, fermo restando il ruolo di Omar. Una volta maggiorenni, Erika e Omar scontano la pena nelle carceri: lui ad Asti, lei a Brescia. Il 3 marzo 2010 Omar viene scarcerato, grazie all’indulto e a premi per la buona condotta. Si stabilisce in Toscana e incomincia a lavorare come barista, dichiarando di voler mettere su famiglia con la sua ragazza. Il 5 dicembre 2011 esce dal carcere anche Erika, che, intanto si è laureata in filosofia. Ottenuta la libertà, si trasferisce in una casa di proprietà a Lonato. Nel gennaio 2013 Erika dichiara in alcune interviste di non riuscire a trovare lavoro a causa dei suoi trascorsi. Poi, ottiene un lavoro a tempo indeterminato come segretaria in un’industria edile a Rieti. Dal settembre 2013 al marzo 2015 lavora in un negozio di dischi e strumenti musicali, successivamente chiuso, vicino Lonato. Sembra che il titolare del negozio fosse un musicista della zona e il suo ragazzo. Oggi lavora in un’azienda agricola, in un paesino sul lago di Garda, insieme al suo fidanzato conosciuto nell’ospedale psichiatrico.

Omar Favaro e l’ex moglie invece si sono conosciuti sui social circa otto anni fa. Si sono sposati e presto è nata la loro bambina ma durante la pandemia la moglie avrebbe richiesto l’aiuto delle forze armate per episodi di violenza da parte di lui. Nel 2021 lei ha lasciato la casa in cui viveva con Omar. Ad oggi, “La piccola si rifiuta di vedere il padre, perché inizia a ricordare le violenze a cui ha assistito”, ha spiegato l’avvocato di lei Emanuele Labis. Favaro al momento è accusato di maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale. Il gip ha bocciato la richiesta della Procura di Ivrea di una misura cautelare che gli impedisse di avvicinarsi alla figlia e all’ex moglie, ritenendo che non vi sia un “pericolo” concreto. Adesso il caso è nelle mani del Tribunale del Riesame.

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