di Enzo Marzo

Vi prego, leggete il pamphlet di Ettore Maggi senza pregiudizi e solo per soddisfare una sete di conoscenza. Vi sono ricerche e notizie che hanno avuto scarsissima diffusione nel nostro Paese. Pardon, Nazione. E le ragioni sono ovvie. Si vuole impoverire la complessità della guerra in Ucraina in poche causali. Al contrario una vicenda epocale, che sta costando il sacrificio di milioni di persone e devastando città e campagne e che mette in gioco i destini geopolitici del mondo intero, ha sullo sfondo ragioni ideologiche ben profonde.

Putin non è soltanto un autocrate paranoico, e sottovalutare le sue motivazioni è da autolesionisti.

Già abbiamo avuto l’esperienza di Hitler, e cara l’abbiamo pagata. Già dalla metà degli anni ’20 del Novecento il padre del nazismo aveva messo nero su bianco i suoi obiettivi, i suoi metodi, tutto il suo razzismo e l’avversione per il mondo “liberale”. In seguito non ha fatto altro che eseguire il suo copione passo dopo passo fino ad eccessi che il mondo civile non poteva neppure immaginare. Eppure era tutto scritto.

Oggi ci ritroviamo di nuovo con un problema simile. Putin è solo il nuovo esempio di come sia sottovalutata la categoria politica sottolineata da Hannah Arendt: il totalitarismo. Nel ‘900 ne abbiamo visti soprattutto due, il nazismo e il comunismo. E li abbiamo conosciuti anche alleati nel 1939 col Patto Molotov-Ribbentrop (fa sorridere Putin quando il 9 maggio in piena Parata per la Vittoria rimprovera l’Occidente per aver “dimenticato chi ha sconfitto il nazismo”, quando proprio lui sorvola su chi col suo imperialismo ha acceso la miccia della seconda guerra mondiale). Putin dichiara apertamente qual è il suo disegno. E non da ora. Colpevoli i politici europei a non accorgersene, se non adesso. Forse. Il progetto imperialista di Putin lo potete leggere chiaro e tondo in appendice al libello di Maggi. È scritto di sua mano. E la prova provata è nell’aggressione all’Ucraina, nell’ansia di ritorno al medioevo del patriarca di Mosca Kirill, a cui nella tragedia piace recitare la parte di Goebbels. E infine nella paranoia euroasiatica di Dugin. Ma c’è poco da ridere. Come non c’era nulla da ridere su Hitler e Stalin.

Il trattatello di Maggi parla soprattutto di questo: della congiunzione dei due totalitarismi di estrema destra e di estrema sinistra, avversari mortali ma nel fondo così simili. La bandiera del primo partito fondato da Dugin è un’agghiacciante svastica disegnata con la falce e il martello su fondo rosso nazista. Dopotutto Dugin fa sua, rovesciata, l’intuizione di Arendt. Assomma lo stesso odio dei due dispotismi per la democrazia, per la ragione, per l’individuo, per la tradizione del libero pensiero che costituiscono la base ideale della storia europea degli ultimi secoli, e fonda un totalitarismo “complesso” che lega assieme un pensiero ovviamente reazionario e un neoimperialismo antistorico condito con una superstizione devota.

Notevole è l’acribia con cui Maggi ha seguito fin dalle origini la costruzione da parte di neofascisti turbolenti di questa “ideologia” rossobruna di cui vi sono tracce perfino nel ‘68 romano (ricordiamo i nazi-maoisti della Facoltà di giurisprudenza di Roma, mentre nel limitrofo Centro sportivo universitario si esercitavano i futuri terroristi neri) che alla fine trova la propria consacrazione nelle pagine di questo ideologo che, come afferma egli stesso con orgoglio, alimentano le ambizioni sterminate di un piccolo agente del KGB che vuole farsi Zar[i]. E restaurare Stalin.

Dall’altra parte marxista leninista e piccista, sul piano intellettuale ma non solo, ci furono spie dello stesso segno. Basta riprendere in mano la collezione di “Contropiano” o rileggere le pagine fortemente reazionarie di Pasolini (non a caso amato dai giovani missini) sul settimanale “Tempo”.

Da questo ircocervo di incunaboli trova origine e continuum il rossobrunismo d’oggi. Mai dimenticare l’Appello ai fratelli in camicia nera di Togliatti e del gruppo dirigente del PCd’I rifugiato a Parigi, il quale, tra l’altro, faceva suo il “programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori”. Si era nel 1936. Era già l’antipasto apparecchiato da Stalin per arrivare al Patto con Hitler.

Certo l’impero sovietico si è squagliato, il Muro è stato picconato, i partiti comunisti europei hanno perduto ragione d’essere e nome. Si pensava che fosse tutto finito, ma si era dimenticato che la nostalgia è dura a morire. Come è accaduto per i socialisti che per rimpianto di Craxi sono diventati per decenni berlusconiani alleati dell’estrema destra. Così basta che la Madre Russia voglia rifondare il suo impero e una schiera di stalinisti d’antan diventa olgettina e arde dalla voglia di baciare in bocca l’amico di Putin.

L’attuale “pacifismo in tempo di guerra”, che è ben diverso dal vero pacifismo, è semplicemente rossobrunismo che accomuna Forza nuova e Canfora, Alemanno e Santoro. I putiniani nostrani non vogliono la pace, ma semplicemente il disarmo dell’Ucraina e quindi la sua resa. Molto meno ipocriti sono i Feltri Vittorio che già nella prima settimana di aggressione russa sostennero che l’unica via d’uscita per Kiev fosse quella di arrendersi. Invece i putiniani pacifisti rossobruni, terrorizzati per un’eventuale controffensiva ucraina, ululano alla luna senza avere il coraggio di rivolgere direttamente i loro appelli allo Zar, che sarebbe il logico destinatario della richiesta di un “cessate il fuoco”, ma che continua a ripetere che non smetterà l’aggressione prima di avere raggiunto tutti gli obiettivi proclamati fin dall’inizio.

Un capitolo minore spetta ai putiniani non rossobruni, che sono entrati in questo tragico gioco non per adesione a un pensiero perverso bensì per nostalgia di un giovanile antiamericanismo o per improvviso opportunismo politico-elettorale molto cinico e molto doroteo o per interessi minori come il carrierismo, la voglia di stare sempre sul palcoscenico o per continuare spudoratamente le trattative all’Hotel Metropol di Mosca. Ci sarà modo di tornarci su.

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