Michela Murgia è una figura pubblica forte, netta, che da sempre divide. E sono certa che sarà “divisiva” anche la sua intervista sul Corriere, in cui parla di cancro, di morte e di altri temi fondamentali della vita: maternità, relazioni, amore, dolore, trauma e molto altro. Sbaglia però chi pensa che il suo dividere e accendere gli animi (c’è chi la adora e chi la aggredisce) sia legato alla politica, al suo essere “di sinistra” (ma lei stessa dice di non aver mai votato Pd), antimeloniana e antifascista (questo sì, lo dichiara). In realtà Murgia divide perché parla e scrive sempre in modo diretto, senza mezzi termini. E tratta spesso cose scomode, che la maggior parte delle persone preferisce non solo non dire, ma nemmeno sentirsi dire perché proprio non le vuole pensare.

Di questa scomodità l’intervista di oggi è colma: non c’è una sola riga che non arrivi al cuore, o allo stomaco, o ai polmoni per togliergli fiato, a seconda della metafora che si preferisce. Propongo solo due punti di attenzione, che già da soli sono un macigno: la malattia e la morte.

La malattia. Splendido il ribaltamento che Murgia propone: il cancro non è un nemico contro cui lottare, ma una parte della persona che lo produce. Mi correggo, non una parte, perché Murgia è ancora più affilata: “il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono”. Sono due le rivoluzioni che stanno dentro a questo modo di parlare non solo del cancro, ma di qualunque malattia che porti alla morte in tempi rapidi: il rifiuto della metafora bellica – abusatissima nel linguaggio mediatico e nella vita di tutti i giorni – e la consapevolezza che con la malattia si convive sempre, al punto che non si ha la malattia, si è la malattia.

Tutto il contrario di ciò che la nostra società salutista, abilista ed efficientista ci spinge a pensare, sentire e vivere. Al prezzo di tenerci lontani dalla realtà. La vita è continuamente fatta di malattie, piccole o grandi che siano, da quando nasciamo fino a quella (o quelle) che ci portano, in tempi più o meno rapidi, alla morte. Alcune si possono curare bene, altre meno bene, alcune oggi non si curano e forse si cureranno in futuro. Ma per ogni malattia che domani potrà essere curata, ce ne sarà sempre una incurabile, perché di qualcosa, anche in futuro, dovremo pur morire, no?

La morte. È il tema in assoluto più scomodo dell’intervista. La nostra società – quella occidentale e dei Paesi più ricchi del mondo – nega la morte. Con ostinazione e ottusità, no, peggio, con cecità. Tutto il nostro mondo è intriso di questa negazione: dai settantenni e ottantenni che governano e pensano di ricandidarsi, ai bambini che non si portano ai funerali “per non impressionarli”, da chi muore all’improvviso lasciando gli eredi nei guai perché non ha mai pensato di sistemare debiti e lasciti, alle challenge mortali che si lanciano gli adolescenti su TikTok, dall’acquisto di automobili sempre più veloci con l’illusione che siano sempre più sicure (mentre mettersi in autostrada oggi è una delle cose più rischiose che facciamo) alle spericolatezze di chi pratica sport estremi. Cosa accomuna queste pratiche in apparenza disparate? L’idea che la morte non ci sia. La sua negazione. Punto.

Perciò l’intervista di Murgia sarà per alcuni commovente, per altri sconvolgente, per altri ancora inaccettabile. Nella maggior parte de casi, susciterà un fugace momento di riflessione, subito allontanato, pensando “povera, che brutta cosa”. Qualcosa che va tenuto lontano, perché “basta parlare di cose tristi”. Ma parlare di morte è parlare di vita. E l’intervista di Murgia trasuda gioia, altro che tristezza.

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