In un mondo dove la violenza è stata circoscritta e codificata, lo sport ha finito per prendere il posto dei grandi poemi epici. Gli atleti sono diventati eroi ardimentosi e impavidi, guerrieri continuamente costretti a scendere in un’arena ideale per coprirsi di gloria. I loro successi non sono vittorie, ma gesta. Vengono raccontate, tramandate, idealizzate. Fino a quando smettono di appartenere alla cronaca per diventare letteratura. In questo modo, però, gli atleti sono diventati anche degli attori, degli interpreti costretti a indossare una maschera prima di andare in scena. Perché quando si viene raccontati come supereroi è difficile mostrare il proprio lato più umano. Lo sportivo deve apparire così sicuro di sé da far credere agli altri di essere inscalfìbile, a prova di critiche che a volte possono aprire ferite più profonde dei proiettili.

E in un ambiente machista e ultracompetitivo, dove spesso il secondo posto viene considerato un fallimento, non c’è niente di peggio che ammettere pubblicamente la propria debolezza. La storia si ripete sempre uguale a se stessa ormai da decenni. Ancora e ancora e ancora. Perché del benessere psicologico degli atleti si parla solamente quando qualcuno decide di uscire allo scoperto e raccontare apertamente il proprio disagio. Solo che poi la cosa finisce sempre più o meno lì, sepolta sotto la stramba idea secondo cui gli stipendi più pingui dovrebbero avere un effetto lenitivo sugli stati d’ansia. L’argomento è tornato di stretta attualità ieri sera, nella sfida dei quarti di finale di Europa League fra Juventus e Sporting Lisbona. A pochi minuti dall’intervallo Szczęsny chiede il cambio. Perché di continuare a giocare proprio non se la sente. Mentre tutti si chiedono cosa sia successo, il portiere polacco cammina verso la panchina. Con gli occhi pieni di lacrime e la mano sul cuore. “Ho avuto un attacco di ansia, panico, con delle palpitazioni – dirà a fine partita – Non mi era mai capitato e mi sono spaventato. Ho fatto tutti gli esami e va tutto bene”. È un accadimento eclatante che mette in luce un fenomeno che non può più essere ignorato.

Perché negli ultimi anni sono tanti gli sportivi che hanno parlato apertamente del proprio disagio psicologico. In questo senso la pandemia sembra aver soffiato via buona parte del riserbo che per anni ha nascosto l’argomento sotto il tappeto. Esattamente tre anni fa il sindacato mondiale dei calciatori (Fifpro) ha pubblicato un report interessante. Perché in quelle pagine veniva tratteggiato un quadro con tinte molto più cupe del previsto: il 16% dei giocatori aveva ammesso di avere sintomi riconducibili a uno stato d’ansia generalizzata. E pensare che in uno studio analogo di qualche mese prima la percentuale di calciatori con problemi d’ansia non superava il 6%. Il lockdown e l’incertezza sul proprio futuro avevano fatto da detonatore, frammentando famiglie, moltiplicando solitudini. Trentasei mesi dopo la situazione non è molto diversa.

Perché i motivi che possono portare all’insorgere di stati d’ansia e di attacchi di panico sono molteplici. Qualche settimana fa Alphonso Davies, uno che a 22 anni ha già vinto 4 scudetti, una Champions e un Mondiale per club con il Bayern Monaco, aveva detto su Twitch: “Dopo l’allenamento, torno a casa e sono solo. Qui ho cinque amici, la mia famiglia è in Canada e la mia ragazza non vive a Monaco. Mi sento un perdente di successo. Ammetto di essere preoccupato”. Qualche mese prima era toccato a Bojan Krkic, uno che ai tempi della Masia sembrava poter diventare un clone di Leo Messi e che invece ha finito per ritirarsi a soli 32 anni. “Al Barcellona avevo gli attacchi d’ansia prima di giocare – ha detto – ma nessuno voleva parlarne. Al mondo del calcio queste cose non interessano”. E ancora: “Ho un problema, il calcio è la mia vita, ma soffro di attacchi d’ansia. Ho saltato un Europeo per questo e lì è stato il punto di non ritorno. Ma la gente non sapeva”. Un paio di anni fa Alessandro Gazzi, centrocampista di Bari, Torino e Palermo, ha scritto un libro in cui la parola ansia compariva addirittura nel sottotitolo (Un lavoro da mediano. Ansia, sudore e Serie A, 66thand2nd editore). Si trattava di qualcosa di inedito ed enorme per il mondo del calcio, qualcosa che iniziava a mostrare cosa c’era sotto quella patina dorata che avvolgeva il pallone.

“Mi sono ritrovato in preda a paure che aggredivano il mio fisico stressato. Sentivo le gambe tremare, come se ad ogni istante dovessero cedere – ha scritto l’ex centrocampista – Ci furono week end nei quali, dentro di me, speravo di non scendere in campo, tanto forte era il disagio che provavo. Giocai diverse partite con un’ansia che paralizzava i miei gesti, rendendo i movimenti meno fluidi”. Anche Ben Foster, ex portiere, fra le altre, di Manchester United e Watford, ha fornito un contributo interessante. Secondo l’estremo difensore inglese, infatti, ci sono giocatori che hanno bisogno del pubblico per rendere al meglio e altri che, al contrario, sono terrorizzati all’idea di giocare davanti ai tifosi. E proprio per questo il ritorno del calcio a porte chiuse durante l’emergenza per il Covid era stato una benedizione per molti di quei calciatori che “arrivati al giovedì, al venerdì e soprattutto al sabato cambiano espressione e subiscono molto la pressione”. Il numero di atleti professionisti che parla apertamente del proprio disagio (o di quello altrui) è cresciuta molto negli ultimi anni, tanto che il tema del panico nel mondo dello sport non sembra più essere un tabù. La sfida, ora, è riconoscere che l’ansia è una componente del gioco, un elemento che può influire su una singola prestazione così come su una carriera intera. E proprio per questo il gioco d’anticipo è essenziale, soprattutto per i calciatori delle categorie inferiori, dove le condizioni, spesso, sono ancora più difficili. Non è un caso che l’AIC, l’Associazione Italiana Calciatori, abbia dato vita a “You’ll Never Walk Alone”, un programma di affiancamento psicologico gratuito per i giocatori professionisti di Serie C. È un progetto innovativo e importante, che rappresenta un ottimo punto di partenza per affrontare un problema che non può più essere procrastinato. Per il resto bisogna lavorare sulla cultura sportiva. Magari provando a raccontare i calciatori come uomini e non più come supereroi.

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