Fino a poco tempo fa tesi “eterodossa”, presentata quasi di nascosto dagli economisti della Banca centrale europea, quella contro l’inflazione da utili aziendali è diventata la nuova crociata di Bce e altre banche centrali. L’evidenza oramai parla chiaro, l’inflazione con cui siamo alle prese dipende, anche se non soprattutto, dalle aziende che hanno ritoccato i listini più di quanto siano saliti i loro costi, approfittando della situazione. L’aumento dei costi c’è stato ma è stato amplificato dal comportamento delle imprese. I profitti aziendali sono saliti, i margini, in media, anche. Il potere d’acquisto dei salari invece è crollato.

Lo scorso 22 marzo era stata la presidente della Bce Christine Lagarde a bacchettare le aziende. Pochi giorni fa sulla questione è tornato il membro italiano del consiglio direttivo Fabio Panetta, in un colloquio con il quotidiano statunitense New York Times. “I politici, da tempo preoccupati dalla possibile rincorsa tra prezzi e salari, dovrebbero iniziare a preoccuparsi dei rischi di una cosiddetta spirale profitti-prezzi”, ha spiegato Panetta rimarcando come nel quarto trimestre dello scorso anno la metà delle pressioni sui prezzi nella zona euro sia venuta dai profitti, mentre l’altra metà è derivata dai salari. Le aziende che aumentano i loro prezzi in misura superiore al necessario alimentano l’inflazione e le banche centrale sono costrette ad aumentare i tassi di interesse, ha avvertito il banchiere centrale, suggerendo ai governi di valutare provvedimenti per correggere queste distorsioni.

“Si discute molto sulla crescita dei salari ma probabilmente non stiamo prestando sufficiente attenzione ai profitti”, ha detto Panetta. Eppure su questo punto la Bce non è del tutto incolpevole. Molti economisti rimarcano come in realtà un’inflazione di questo tipo, da profitti aziendali, tenda a “combattersi da sola” poiché si arriva ad un punto in cui i consumatori comprano di meno, la domanda scende, e le imprese sono spinte a ridurre i prezzi, o non alzarli più, per riconquistare o mantenere quote di mercato e fatturato. Sino a non molto tempo fa la Bce definiva l’inflazione transitoria, poi l’ha collegata ai costi energetici e a problemi nell’offerta e avviato quindi un percorso di rialzo dei tassi che, se le cose stanno diversamente, potrebbe aver inflitto un inutile dolore ad economia e lavoratori.

Il tasso medio di inflazione per i 20 paesi che utilizzano l’euro è scesa in marzo dall’8,5% al 6,9% grazie al calo dei costi energetici ma l’inflazione “core”, ossia che esclude i prezzi più volatili come l’energia e gli alimentari, è cresciuta dal 5,3 al 5,6%. profitti della zona euro sono stati a marzo in media pari all’8,5% dei ricavi. Prima della pandemia, a fine 2019, si fermavano al 7,2%. Dinamiche simili sono state riscontrate anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ci sono settori in cui “i costi di input stanno diminuendo mentre i prezzi al dettaglio stanno aumentando e anche i profitti stanno crescendo”, ha notato Panetta.

L’Istat ha segnalato oggi come in Italia “La crescita del reddito disponibile delle famiglie (+0,8%), accompagnata da una crescita dei prezzi al consumo particolarmente forte nello stesso trimestre, ha comportato una significativa diminuzione del potere d’acquisto (-3,7%). La tenuta della spesa per consumi finali (+3% in termini nominali) si è quindi accompagnata ad una marcata flessione del tasso di risparmio”. Eppure, a livello sindacale nulla si muove. Caso anomalo in Europa viste le mobilitazioni di Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo. In Italia Cgil, Cisl e Uil sembrano paralizzate. L’iniziativa unitaria concordata oggi si limita all’organizzazione di tre manifestazioni nel mese di maggio. Eppure l’inflazione italiana è alta tanto quella degli altri paesi e gli stipendi, unico caso tra i paesi Ocse, sono rimasti uguali a 30 anni fa.

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