Non avrei mai voluto occuparmi di cibo, bevande e succedanei, più o meno elaborati. Prometto che mai più scriverò di cucina, ma lasciatemi dire un paio di cose. Pare non se ne possa fare a meno. Se ne occupano tutti e ora anche il bel libro di uno storico dell’economia ha scatenato il putiferio, ripreso dal Financial Times, Cicero pro domo sua: a un inglese non par vero poter sparlare della cucina italiana…

In aggiunta il governo ha deciso di promuovere la certificazione a Patrimonio dell’Unesco della cucina italiana. I social, d’altronde, da tempo sono impazziti con le fotografie di cibo. Si mangia meno ma si fotografa di più. Sembra Odeon, tutto quanto fa spettacolo… se non fosse che anche questo – scusate se sono noioso – forse serve a distrarci da cose più serie, trattando con grande sussiego le frescacce e scherzando pericolosamente con le cose serie.

Da sempre gli storici economici in realtà si sono occupati del cibo, almeno per quanto riguarda le materie prime. Personalmente per amore e piacere ho avuto a che fare con le storie dello stoccafisso e della polenta (roba da pellagrosi…). Ma è un’altra cosa. Il mio maestro, Gino Barbieri, un grandissimo storico dell’economia, riteneva la gastronomia una cosa troppo bella per lasciarla in mano agli studiosi e ne godeva in silenzio, cioè senza scriverne, ma praticando, anche da Socio dell’Accademia Italiana della Cucina. Il piacere della tavola è talmente sublime che non vale deturparlo con noiose teorie e discorsi…prima o dopo i pasti. E già sono troppo numerosi quelli che di ogni cosa ne hanno fatto una ‘scienza’, non per desiderio di sapere o per sviluppo delle conoscenze, ma ovviamente solo per aumentare le proprie entrate e ingrassare il proprio ego.

Tutti possono parlare di cucina, ma sarebbe meglio tacerne, prendendo esempio dal commissario Montalbano, che significativamente non sopporta chi parla a tavola. La cucina più che con la testa si fa con il palato, con i sapori con i quali siamo cresciuti. Ovviamente non sono un teorico, ma un po’ di consuetudine quotidiana con il cibo buono ho cercato di mantenerla, quella dei miei nonni e delle mie nonne. Però il momento è grave, perché stanno cercando di distruggere – se non ci sono già riusciti – una delle più alte espressioni della natura umana.

L’arte di mangiare bene, “il piacere onesto e la buona salute” non sono una roba da scienziati, non sono marketing, nemmeno un corso forzoso di buone maniere per parvenu o pseudo ricchi. Eppure, sulla gastronomia ci hanno edificato anche delle Università. Peraltro, anche se insegnassero l’arte del Platina, dell’Artusi, di Carnacina e di Tullio Gregory in Paradiso, la cucina resterà sempre solo un piacere della vita; imprevedibile e asistematico, superiore e più interessante di ogni scienza teorica, da non inquinare né con questa né con i suoi noiosi sacerdoti.

Già gli scienziati – quelli veri – sanno di non aver certezze definitive, a maggior ragione in campo culinario, dove non esistono leggi, tutto è possibile. Ciononostante, la libertà alimentare non è scema o assurda. E la persistenza di un certo territorio diventa tradizione. Le buone maniere un dovere. Ma largo alla libertà, alla creatività, sempre. Al punto che dalle mie parti, ad esempio, chiamiamo baccalà lo stoccafisso, anche se è sempre lo stesso merluzzo disidratato senza sale, che poi preparato alla vicentina diventa un piatto sublime, il Baccalà.

Come ogni aspetto della vita dell’uomo a maggior ragione le tradizioni quindi si possono sconvolgere. Eppure, qui lo dico con forza, la pizza resta solo quella pizza napoletana, possibilmente margherita; la carbonara è quella con il guanciale e chi usa la panna è un mostro; il Parmigiano Reggiano solo quello di Parma e Reggio. E via di questo passo. La contraddizione è il sale non solo della vita, ma anche della (buona) cucina. Le presunte verità scientifiche, le leggi e i regolamenti sorti non si sa come, servono spesso solo da puntello alla stupidità umana.

Poi, a proposito dell’Unesco, ammettiamo doverosamente che la cucina italiana, in senso stretto, non esiste, e non capiamo perché dovrebbe essere benedetta e istituzionalizzata, come fosse la mummia di Tutankhamon. Tutti i piatti, ogni specialità infatti è solo regionale; il che non vuol dire però che sia anche italiana. E parlando di cucine nazionali considero l’alta cucina francese – come la cucina della guida Michelin – una non-cucina, una roba di cuochi fatta prevalentemente per i cuochi, contraria alla dimensione sociale della buona tavola. Al contrario la cucina italiana è tutta nel suo spirito, nella sua atmosfera, non nei piatti. La cucina italiana è roba da trattorie e da famiglie alla domenica, gioia di mangiare bene, dalla bella compagnia e dall’ospitalità gentile. Vuol dire stare insieme, porte aperte, semplicità gustosa. I protagonisti sono i commensali, il cibo è secondario, e se è povero e semplice, meglio, perché migliore dovrà essere la sua trasformazione, più forte dovrà essere la componente sociale.

L’arte di mangiar bene non vuole pensieri. Ogni formalizzazione o teorizzazione della cucina, come se fosse la fisica quantistica proprio non ci sta. Certo per pagare 300 euro a pasto, per creare un business in una società che spende 1400 euro per un inutile telefonino, come si dice dalle mie parti, ci vuole un po’ di ‘parecio’. Bisogna chiamare i cuochi, chef; bisogna togliere al cliente qualsiasi possibilità di scelta, per ripetergli che è davanti a un’opera d’arte, non a una cena allegra. Ma questo è un altro mondo, un’altra attività. L’arte di mangiar bene non è nutrirsi, ma non è nemmeno andare al museo.

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