Alla fine cosa rimane? Una domanda che spesso ci poniamo al termine di un’esperienza particolarmente coinvolgente come, ad esempio, un periodo di missione in Africa. Pregnante a tal punto che la viviamo senza avere il tempo di pensarla e maturarla. Giorno per giorno, attimo per attimo si incrociano volti e storie, preoccupazioni, gioie, ritardi e finalmente si riesce a raggiungere l’obiettivo, malgrado i numerosi imprevisti, incomprensioni, che in Africa sono all’ordine del giorno. In questa Terra può succedere, e a volte accade, davvero di tutto e anche di più. Giorni intensi in cui si è come rapiti dalle mille cose da fare. L’ho vissuta così anche quest’anno la missione in Africa, con quella emozione unica e profonda che i bambini dell’orfanotrofio di Sakètè fanno provare.

Poco prima di partire, un evento inatteso: mentre attendevo gli altri miei compagni di viaggio e di servizio, è accaduto qualcosa che ha attirato la mia attenzione. Proprio sotto il terrazzo, dove sostavo, in quel preciso istante di caldo pomeriggio africano, passa un uomo molto anziano con il suo incedere lento e pensoso. Si muoveva con enorme fatica, un passo dopo l’altro, ponderato con estrema attenzione per evitare di inciampare appoggiato al suo vincastro: un pezzo di legno sottile e rigido, piegato al centro e lavorato a mano, che sosteneva il suo cammino. Non alzava mai lo sguardo da terra. I suoi calzari erano un misto di plastica e stracci. Con la mano sinistra teneva stretto alcune bottiglie di plastica vuote legate le une con le altre e tre piccole buste nere che contenevano, probabilmente, un po’ di cibo raccattato durante il giorno.

Scendo senza fretta per dargli la possibilità di andare un po’ più avanti rispetto alla nostra abitazione. Volevo conoscere quell’uomo senza sguardi indiscreti o curiosi. Ma in Africa per uno “Yovò” (uomo bianco), questo è quasi impossibile. Appena metti il naso fuori dalla porta sei attenzionato dallo sguardo degli astanti. Seguo per un po’ quell’uomo, poi gli passo accanto e lo saluto con un semplice “bonsoir”. Mi risponde subito ma senza alzare lo sguardo, tant’è che sono costretto a mettermi davanti per costringerlo a fermarsi. Finalmente solleva gli occhi verso di me, sorpreso dalla mia presenza, ripete il saluto accompagnato da un sorriso profondo, carico di gratitudine.

Dopo una lunga stretta di mano, con la quale ci scambiano i nostri nomi, ci fermiamo a dialogare. Basil, rispondendo ad una mia domanda, tenta di indicarmi il luogo in cui abita, ma è una descrizione molto approssimata e capisco che in realtà non ha dimora, vive per strada chissà da quanto tempo, con i suoi 86 anni di cui sente tutto il peso. Gli chiedo come mai non l’ho mai visto passare da qui: “ho sbagliato strada – mi dice sorridendo – ogni tanto mi capita di distrarmi”.

Ecco cosa mi rimane alla fine della prima missione africana 2023: lo sguardo gioioso di Basil che solleva gli occhi verso il cielo e mi benedice: “Dio te ne renda merito”. Mi sorprende quella benedizione non cercata, né scontata, men che meno attesa. Rimango quasi incantato da quello sguardo compiaciuto e quegli occhi profondi che vedono ciò che non si vede: il mistero di un Dio che da sempre ha scelto di essere come Basil. Che si compiace di “dire bene” (benedire) la nostra umanità che sa riconoscere bisogni e fragilità. Non ho chiesto a nome di quale Dio mi stesse benedicendo. Non ne ho avuto bisogno. Ho percepito nello sguardo di Basil il volto del vero e unico Dio che nel suo Figlio Gesù Cristo, attraverso la sua incarnazione e croce, ha scelto di essere Padre di tutti. Proprio Lui, l’unigenito Figlio del Padre, ci invita a vivere da risorti, con quella dirompente realtà che penetra i secoli e sorprende la nostra distratta umanità, con voce chiara e risoluta: “Ogni volta lo avete fatto a me”.

Sì, mi ha sorpreso ancora una volta il buon Dio. Ma in fondo se Dio non ci sorprende e stupisce… semplicemente non è Dio. Buona Pasqua di resurrezione a tutti.

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