Che il problema fosse strutturale lo si era capito da tempo. Quella italiana è un’amministrazione vetusta, inefficiente, con gap digitali e progettuali diffusi in tutto il territorio, dove spicca non solo la mancanza di risorse umane in generale, ma soprattutto di persone qualificate nei posti chiave.

I nuovi concorsi indetti negli ultimi anni nella pubblica amministrazione, tra cui quelli lanciati da Brunetta per il Sud, andavano deserti ed erano lo specchio di un paese che non attrae più. Infatti, all’aumentare delle responsabilità e delle qualifiche richieste, diminuiva la proposta remunerativa, con contratti al limite della soglia di povertà: il concorso per il Sud prevedeva uno stipendio netto tra i 1.400 e i 1.500 euro. Senza contare l’assenza delle infrastrutture amministrative e digitali, vero tallone d’Achille nella piena – quanto utopica – realizzazione degli obiettivi del Pnrr. E poi, al contrario, l’assunzione di super consulenti ed esperti del Pnrr da parte di Ministeri e Regioni, spesso poco competenti, male organizzati ma soprattutto strapagati per il loro effettivo lavoro, come dimostrano alcuni casi in Emilia Romagna, Sicilia e Lombardia.

Inizierei da questi pochi, paradossali elementi per descrivere la situazione attuale, che sta portando non solo al rallentamento del Pnrr ma addirittura al rischio di perdere definitivamente quei fondi che prima il governo Conte e poi quello Draghi hanno cercato d’implementare.

Tralasciando le molteplici responsabilità di chi ha preceduto il Governo Meloni, lascia perplessi la completa confusione che regna nell’attuale maggioranza.

A che punto siamo con il Pnrr?

L’Italia è la prima beneficiaria, in valore assoluto, dei due principali strumenti del Next generation EU: il Dispositivo per la Ripresa e Resilienza (RRF – 191,50 mld €) e il Pacchetto di Assistenza alla Ripresa per la Coesione e i Territori d’Europa (REACT-EU – 13 mld €).

Per il rilancio del Paese si tratta di un’occasione unica, ma burocrazia e deficit di infrastrutture e di personale tecnico adeguato ostacolano le possibili soluzioni, col rischio di non riuscire a usare i fondi.

Finora l’Italia ha speso solo una minima percentuale dei fondi ricevuti: sui 191,5miliardi del Pnrr, alla fine del 2022 l’Italia ne ha spesi solo 23. Tra i molteplici problemi da annoverare ci sono la terza tranche dei fondi del Pnrr (che riguarda i 55 obiettivi del secondo semestre 2022), dove la Commissione ha già palesato ampie critiche sulle concessioni portuali, le reti di teleriscaldamento e i Piani urbani integrati (i famosi stadi di Firenze e Venezia). Nella maggior parte dei casi, il ministero dell’onnipresente Salvini é chiamato in causa.

Ma il vero scoglio sono le riforme troppo lente, che vanno a bloccare i 27 obiettivi del primo semestre 2023, per un valore di 16 miliardi. Qui la responsabilità è totalmente in capo ai Ministeri, che – fieri di sei mesi di puro immobilismo – non riescono nel mero esercizio di pianificare. I ritardi si accumulano giorno dopo giorno. La Commissione ha già concesso delle aperture in termini di flessibilità sui tempi, però vuole le modifiche chieste da Roma entro la fine di aprile, e le vorrebbe una volta per tutte.

25 giorni di fuoco per il Governo Meloni, che balla sulle ceneri di un governo già diviso. Da una parte la Lega di Salvini, che parla d’impossibilità di spesa, spianando la strada ad un possibile non utilizzo di tutti i fondi. Dall’altra la presidente Meloni, che oltre a vedere sfumati miliardi di euro per rilanciare l’Italia teme piuttosto la ricaduta d’immagine dell’Italia e del suo governo a livello internazionale, immaginate lo scenario per cui si scolpisce sulla pietra che non sono capaci di spendere (bene) i soldi che Conte aveva ottenuto in Europa, sarebbe una macchia elettorale di insuccesso ad un anno dalle prossime elezioni europee.

Obiettivo 2026 e oltre

In gioco, nella trattativa che il ministro Fitto, che è uno che Bruxelles la conosce e capisce, sta portando avanti con le istituzioni europee, c’è la rimodulazione dovuta al lievitare dei costi delle materie prime e la consapevolezza che alcuni capitoli di spesa possono entrare in una fase critica e non essere attuati entro la scadenza, prevista a giugno del 2026.

L’idea di base del governo sarebbe quella di spostare alcuni progetti del Pnrr sui Fondi di coesione, che possono coprire appalti e programmi da mettere a terra entro il 2029, spostando le risorse del Pnrr sui progetti fattibili entro la scadenza del 2026. Insomma, un Pnrr in salsa italiana per tappare buchi nel breve medio periodo.

Ma la vera falla sono le competenze tecniche di cui tanti Comuni, soprattutto i più piccoli, sono privi. Un problema che l’Italia non ha mai risolto davvero e che ha portato all’arretramento della nostra amministrazione. Poche risorse e incentivi che portano le figure più specializzate ad emigrare o preferire il privato. Basti pensare al compenso pari a 2.000 euro al mese per architetti, ingegneri, agronomi, esperti di diritto comunitario, ai quali tra l’altro si offrono solo contratti a termine. Il risultato è che si presentano in pochi ai concorsi e molti vincitori poi rinunciano al posto.

L’esempio spagnolo

La Spagna dei cattivoni di sinistra intanto procede a gonfie vele. L’esempio spagnolo sull’utilizzazione dei fondi del Pnrr è da case study (scusate, intendevo dire “caso studio”, non sia mai mi sanzionino per gli inglesismi) e la differenza in termini di riforme ci fa capire l’arretratezza del nostro Paese, non solo in termini di diritti, come tristemente stiamo assistendo dall’insediamento di questo governo, ma soprattutto in termini di riforme sociali ed economiche, che dai nostri amici iberici hanno consentito di snellire e velocizzare la macchina burocratica.

La Spagna ha già incassato la terza rata del suo piano e viaggia spedita avendo già raggiunto 121 dei suoi 416 obiettivi, il 30%. Come ha fatto? Il governo Sanchez ha chiesto inizialmente solo la parte delle sovvenzioni pari a 77,2 miliardi di euro, mettendo meno carico nella fase di avvio e concentrando le proprie priorità:

• investimenti nel digitale, che vuol dire snellimento burocratico e aumento della velocità della macchina amministrativa;
• interventi sulle rinnovabili (impensabile in Italia);
• due riforme chiave su pensioni e lavoro.

Tale schema ha permesso al governo Sanchez di ricevere, a 21 mesi dall’approvazione, 37 mld di euro, e il Ministero delle Finanze ha già deliberato appalti e bandi di gara per 23,5 di miliardi di euro su 37. Altro che ponte dello stretto.

Adesso la Spagna chiederà i prestiti avendo gettato le basi per accelerare, grazie alle sue riforme, con l’utilizzo di ulteriori risorse del Recovery spagnolo.

In questi mesi la Spagna è riuscita a darsi un piano di lavoro. Accanto alle missioni concordate con la Commissione per il Recovery, in parallelo ha implementato e avviato importanti riforme strutturali, sia nell’ambito dell’evasione fiscale che – soprattutto – sul mercato del lavoro, dove accanto al reddito minimo è stato lanciato un piano contro la disoccupazione giovanile e sono state adottate leggi per disincentivare il ricorso a contratti determinati.

Ai cugini spagnoli va detto chapeau (per un francesismo potrei cavarmela con 100 flessioni, secondo il nuovo codice Rampelli)! Un esempio, quello spagnolo, che mostra la direzione esattamente opposta del governo italiano, che passa più tempo ad addossare colpe ai passati governi e che a livello di riforme sta strangolando il mercato del lavoro, avvelenando il clima sociale e, in barba all’ordine e alla disciplina a cui si ispirano, continua a strizzare l’occhio all’evasore fiscale e a coloro che per interesse privato calpestano l’interesse pubblico.

La visione e la prospettiva del governo spagnolo evidenziano l’incoerenza di un sistema-Italia che non è aggiornato e che manca di figure competenti, sia dal punto di vista politico che tecnico. Si può buttare fumo negli occhi agli italiani quanto si vuole, ma le cose per cui un governo viene ricordato (e spero giudicato) sono le cose concrete, reali. E sulle cose concrete e reali il nostro governo è senza visione, senza idee, senza alleati, senza obiettivi e sempre più fuori dal tempo e dai giochi. A spese degli italiani tutti.

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