Gli economisti bocconiani si spaccano sull’ipotesi, ventilata dal capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari, che l’Italia rinunci almeno a una parte delle risorse a prestito del Pnrr: oltre 120 miliardi che si aggiungono ai 70 di sovvenzioni a fondo perduto. Dalle pagine di Repubblica Tito Boeri e Roberto Perotti danno ragione a Molinari. “Il problema è che quei soldi non sappiamo come spenderli, e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi“, scrivono, elencando cinque motivi per cui va valutata seriamente l’ipotesi di non “tirare” tutti i prestiti disponibili. Idea che è invece assolutamente da escludere secondo il collega Francesco Giavazzi, amico di gioventù di Mario Draghi e suo consulente durante l’esperienza da premier. Durante la quale ha presentato il Piano a Bruxelles e ne ha avviato la realizzazione, che ora mostra ritardi e difficoltà.

Per Boeri e Perotti il piano “è nato nel modo sbagliato”, non partendo da esigenze, priorità e capacità di realizzarle ma “esattamente l’opposto”. Cioè “si è voluto portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli. A quel punto si è chiesto alle amministrazioni pubbliche di tirare fuori i progetti che avevano nel cassetto. Poi, resisi conto che anche attuandoli tutti si sarebbe arrivati a spendere solo una minima parte dei prestiti richiesti, si è cercato di spostare sul Pnrr progetti già avviati, opere già cantierate. E comunque anche così non si riesce a spendere tutto quello che abbiamo preso a prestito”. Questo perché, problema ben noto, “si è fatto troppo poco per migliorare la nostra capacità di spesa“. Ci sono troppe stazioni appaltanti, “molti Comuni non sono in grado di gestire gare d’appalto e di seguire i lavori”, i concorsi pubblici che avrebbero dovuto aiutare le amministrazioni locali “sono stati avviati abbassando gli standard anziché porsi il problema di come attrarre le competenze necessarie con retribuzioni e prospettive di carriera adeguate“.

In mezzo, continua la diagnosi dell’ex presidente Inps e dell’ex commissario alla revisione della spesa, “si è scelto di spendere decine di miliardi sulle voci più semplici e più gradite all’ideologia dominante a Bruxelles, senza chiedersi se erano le nostre vere priorità. Siamo ancora convinti che l’Italia avesse un bisogno pressante di 40 miliardi per una generica digitalizzazione, più di 1000 euro per abitante, e pochi miliardi per le periferie e la qualità della vita?”. La fretta ha peggiorato le cose: “Gli stadi di Firenze e Venezia di cui si è tanto parlato in questi giorni sono un esempio perfetto dei disastri causati dalla combinazione di un fiume di denaro e della fretta di spendere. Per la qualità della vita di milioni di nostri giovani è chiaro che sarebbe molto più importante un programma capillare di micro-impianti sportivi ben gestiti e ben mantenuti. Ma è molto più facile spendere soldi in fretta su mega impianti già esistenti. A Rfi che normalmente spendeva 2 miliardi all’anno per investimenti è stato chiesto di triplicare la spesa. Il risultato è che invece di attuare il già previsto miglioramento delle linee esistenti, col Pnrr si sono stanziati miliardi per l’Alta Velocità al Sud per ottenere lo stesso risultato moltiplicando i costi”. Sullo sfondo c’è il problema della trasparenza e del controllo della società civile, tante volte sottolineato da Openpolis. “Con fondi così ingenti, è quasi impossibile controllare cosa fa il governo. Non ci riesce nemmeno la Corte dei Conti. È vero che finora abbiamo soddisfatto tutte le decine di obiettivi intermedi imposti ogni semestre dalla Commissione: ma sono condizioni formali, sulla sostanza sappiamo poco di quanto e come è stato effettivamente speso”.

A conti fatti, è la conclusione, “non è vero che rinunciando ai fondi presi a prestito l’Italia farebbe una pessima figura: prendere atto della realtà è uno dei marchi dei veri statisti. Nessun Paese, neanche i meglio amministrati, potrebbe gestire utilmente ed efficientemente un tale fiume di denaro in così poco tempo. Non ha senso prendere a prestito per spendere in progetti con scarso valore per la società: anche questa sarebbe una dimostrazione di intelligenza, non di fallimento o di mancanza di capacità progettuale“. Come fare con Bruxelles? “Le regole si cambiano, se c’è un motivo convincente. Non lo è certo l’idea del ministro Fitto di spostare progetti dal Pnrr ad altri fondi statali o ai classici programmi europei (cofinanziati dall’Italia) per guadagnare a tempo. Vorrebbe dire sostituire un debito europeo a tasso quasi zero con debito italiano a tassi più alti”.

In assoluto disaccordo Giavazzi, che sul Corriere cita le vecchie stime del Mef sull’impatto del Pnrr sul Pil – che però secondo analisi del Pnrr Lab della stessa università Bocconi con Intesa Sanpaolo e del Forum Ambrosetti sono ampiamente superate – per sostenere che l’Italia non può rinunciare a quelle risorse. Perché spenderle significa crescere, creare occupazione, ridurre il rapporto debito/pil e avere più entrate fiscali da usare per investimenti. A controprova cita il fatto che “l’idea (di rinunciare a parte dei fondi ndr) si è riflessa istantaneamente in un aumento dello spread“, che comunque al momento è sotto il livello del 31 marzo. Per Giavazzi, i progetti “scritti un anno fa in collaborazione con il Parlamento e la Commissione” – in realtà il Piano risale a due anni fa ed è stato inviato alle Camere solo pochi giorni prima dell’invio alla Ue – “non saranno tutti perfetti, ma non penso siano pessimi”. No a ripensamenti e nemmeno a modifiche, dunque, in linea con l’ottimismo ostentato da Draghi all’epoca. Che fare se i Comuni non ce la fanno? “Li si obblighi ad affidarsi a società pubbliche come Invitalia”.

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