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Economia & Lobby - 25 Febbraio 2023

Perché l’economia russa non è crollata: gli effetti delle sanzioni sono ancora da dimostrare

Perché l’economia russa non è crollata: gli effetti delle sanzioni sono ancora da dimostrare

di Francesco Lenzi (www.lavoce.info)

L’economia più sanzionata al mondo

Stando ai dati raccolti dall’istituto Castellum. Ai fino al 9 febbraio scorso, dall’inizio della guerra, l’economia russa ha subito 11.307 provvedimenti sanzionatori da parte dei paesi del G7, della Svizzera e dell’Australia: 9.109 hanno interessato persone fisiche, 2.078 istituzioni pubbliche e private, 120 i vettori di trasporto. Tenendo conto anche delle sanzioni comminate nel 2014, in seguito all’occupazione della Crimea, la Federazione russa non solo è l’economia più sanzionata al mondo, ma il numero di quelle a cui è sottoposta è più alto rispetto a quello comminato nel complesso a tutte le altre economie.

I provvedimenti hanno interessato sia il settore finanziario che l’economia reale. La Russia non può emettere debito pubblico presso investitori del G7 – che non possono nemmeno sottoscriverlo nel mercato secondario; i paesi del G7 le hanno imposto restrizioni nell’accesso ai fondi depositati presso la Banca mondiale e il Fondo monetario; la gran parte delle banche russe sono escluse dal sistema di messaggistica Swift e non possono disporre dei fondi depositati presso le piazze di Londra e New York. La Banca centrale russa non può ricorrere alle sue riserve valutarie, stimate essere circa la metà di quelle dichiarate nel gennaio 2022, depositate presso le piazze finanziarie del G7 e in Svizzera.

Alle società domiciliate nei paesi del G7 è proibito esportare tecnologia e varie tipologie di servizi finanziari o professionali in Russia. L’import/export di beni di lusso è sottoposto a restrizioni, così come le importazioni di oro. L’import di carbone dalla Russia è bandito e quello del petrolio è sottoposto a forti limitazioni (nella Ue è consentito solo attraverso conduttore), in più è stato applicato un tetto al prezzo che i paesi terzi devono rispettare, affinché le società domiciliate nel G7 possano prestare i propri servizi finanziari/professionali utili allo scopo.

Con un simile dispiego di sanzioni, che ha pochi precedenti nella storia recente – basti pensare che persino la Reichsbank di Hitler riuscì a mantenere la disponibilità delle riserve auree depositate in Svizzera – l’effetto che si voleva ottenere era far collassare l’economia russa. Il presidente Biden, annunciando il primo pacchetto di sanzioni americane, affermò che lo scopo era quello di provocare un livello di distruzione pari a quello che i missili e i carrarmati russi causavano in Ucraina. L’obiettivo era dunque mettere in ginocchio la Russia e fermare velocemente la sciagurata invasione. I dati del 2022, usciti di recente, evidenziano invece che l’economia russa, pur avendo subito un considerevole rallentamento, ha reagito molto meglio delle attese. Per capirne le ragioni ci sono, a mio avviso, due ordini di fattori da considerare.

I buchi nelle sanzioni e le contromisure russe

Nel primo mese di guerra e di sanzioni l’economia russa è stata effettivamente vicina al collasso. Sottoposta a una considerevole fuga dei capitali, tagliata fuori dai mercati internazionali e senza la possibilità di utilizzare le riserve valutarie depositate all’estero, ha visto il cambio del rublo deprezzarsi molto rapidamente e l’inflazione importata viaggiare a un ritmo superiore al 2 per cento alla settimana. Se questa dinamica non fosse stata interrotta, si sarebbe innescata una spirale iperinflattiva che avrebbe distrutto il valore della moneta e il sistema dei pagamenti.

Le contromisure prese dalla banca centrale, sommate all’afflusso di nuovi capitali derivanti dall’esportazioni, hanno evitato il tracollo. L’istituto guidato da Elvira Nabiullina si è dimostrato risoluto nel contrastare le pressioni sul cambio e l’inflazione attraverso un forte rialzo dei tassi d’interesse, saliti dal 9,5 al 20 per cento, l’imposizione di stringenti limiti al prelievo di valuta estera e gli obblighi alla conversione dei proventi delle esportazioni. Tuttavia, le misure avrebbero avuto un effetto molto più limitato se Mosca non avesse avuto la possibilità di continuare a esportare. In realtà, la volontà di colpire l’export dei principali prodotti russi – petrolio e gas – non è stata subito così ferrea, per l’ovvia ragione dell’impatto sui prezzi internazionali che la mancanza della produzione russa avrebbe causato. Così se da un lato si è cercato di ridurre il rischio di razionamenti negli approvvigionamenti di petrolio e gas per le imprese occidentali, dall’altro la Russia ha continuato a ricevere afflussi valutari attraverso le esportazioni.

Anche il cosiddetto meccanismo del “pagamento del gas in rubli”, a cui la gran parte dei clienti occidentali ha aderito, è servito per mettere a disposizione delle aziende russe i nuovi capitali che affluivano con le esportazioni. I dati sugli scambi di valuta estera, crollati in conseguenza delle sanzioni e dei controlli sui capitali imposti dalla banca centrale, dalla metà di maggio in poi hanno registrato aumenti di oltre il 300 per cento per l’euro e del 100 per cento per il dollaro, rispetto alla media delle settimane precedenti. “Non ci sono dubbi sull’efficacia di queste misure” sono state le parole di Nabiullina dinanzi alla Duma nell’aprile scorso, per sottolineare come le contromosse della banca centrale siano riuscite a tenere a galla il sistema finanziario russo.

Superato il pericolo di una crisi finanziaria, l’economia russa doveva trovare il modo di aggiustarsi, aprire nuovi sbocchi per i propri prodotti e materie prime, trovare soprattutto nuovi approvvigionamenti dall’estero. Ed è qui che è intervenuto il secondo fattore.

Il contesto internazionale

Nelle settimane successive all’invasione dell’Ucraina molte società occidentali hanno deciso di abbandonare il mercato russo. Il numero preciso non si conosce, si stima siano state un migliaio, con McDonald’s che chiude il proprio ristorante di Mosca come caso certamente più mediatico. Ma non tutte hanno seguito questa strada. Che sia per soldi o per paura, come si chiede un recente articolo di Bloomberg, numerose aziende occidentali continuano a operare in Russia e, finita l’enfasi dei primi mesi, la sanzione reputazionale pare non essere più così pressante.

Simon Evenett e Niccolò Pisani, in un lavoro diffuso un mese fa, hanno rilevato che solo l’8,5 per cento delle aziende con sede in un paese del G7 hanno ceduto almeno una delle proprie succursali in Russia. Molte imprese occidentali non hanno ancora abbandonato il paese e anche gli approvvigionamenti dall’estero, che si volevano bloccare attraverso le sanzioni, dopo un primo periodo di effettivo calo, stanno ritornando sui livelli precedenti al febbraio 2022. Secondo un sondaggio compiuto a luglio dalla Banca centrale russa, solo il 3 per cento delle aziende dichiarava di non essere in grado di sostituire i fornitori occidentali. Il 26 per cento aveva già trovato alternative, il 22 per cento aveva ancora problemi a trovare altri fornitori, il resto non aveva problemi all’importazione.

Nel complesso l’import dell’economia russa si è contratto del 9 per cento nel 2022, contenendo una discesa che nel secondo trimestre era arrivata quasi al 30 per cento. Trovati nuovi fornitori esteri prima che si esaurissero le scorte, anche l’attività produttiva ha potuto continuare registrando nel complesso dell’anno un calo molto modesto (-0,6 per cento), anche se con valori differenti da settore a settore.

Quando avremo i numeri definitivi del 2022, il prodotto interno lordo della Russia sarà diminuito tra il 2 e il 2,5 per cento, un dato che seppure importante dinanzi a una previsione di crescita di prima della guerra intorno al 3 per cento, è decisamente migliore di tutte le stime fatte sulle conseguenze delle sanzioni, che indicavano un calo a doppia cifra.

La Russia inizia il 2023 con un’economia acciaccata, ma non al collasso. Un’economia che ha bisogno ancora di riorganizzarsi, ma che ha già iniziato la sua trasformazione guardando soprattutto a est, alla Cina in particolare. Il Fondo monetario internazionale stima per quest’anno una crescita dello 0,3 per cento. La disoccupazione è al minimo storico, in alcuni settori c’è già carenza di manodopera. Il bilancio dello Stato è ormai strutturalmente in deficit per sostenere il costo della guerra e anche il saldo con l’estero, con i prezzi delle materie prime che si riducono e le importazioni che aumentano, pur rimanendo in attivo, sarà molto più basso del record registrato nel 2022.

Quanto le sanzioni saranno in grado di comprimere il potenziale di crescita dell’economia russa, che per la verità non è mai stato tanto elevato essendo basato soprattutto sullo sfruttamento delle materie prime, rimane ancora da dimostrare. Una cosa è però ormai chiara, come ha scritto Nicholas Mulder sul New York Times, “contro un’economia del G20, gli Stati Uniti e la Ue da soli non sono più in grado di imporre regimi sanzionatori con conseguenze catastrofiche”.

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