I mutui non impazziscono da soli: occorre fermare la narrazione sbagliata sull’aumento delle rate dei finanziamenti.

Un racconto che si basa sull’assunto che le imprese, che avevano stipulato mutui a tasso variabile, in circa sei mesi, hanno visto aumentare le rate dei loro finanziamenti di circa il 40% a seguito della variazione del prezzo della materia prima. Il costo del denaro (tasso di riferimento della BCE) sul mercato all’ingrosso è, infatti, cresciuto del 3% dal luglio 2022 mentre il tasso interbancario di riferimento (Euribor), una sorta di prezzo che si forma a seguito degli scambi di danaro tra le banche e che, di solito, anticipa il trend del tasso BCE, ha fatto registrare più o meno la stessa crescita a partire da gennaio 2022.

Sembra tutto chiaro, vero? Almeno per i bancari che, negli ultimi mesi, ripetono la solita litania di fronte allo stupore e alle difficoltà degli imprenditori di sostenere il pagamento di rate sempre più esose: perché mai un fornitore di una materia prima non dovrebbe scaricare integralmente sul prezzo finale al cliente l’aumento che lei stessa sostiene nel momento in cui si rifornisce di danaro?

Attenzione all’avverbio: integralmente.

Se così fosse allora, anche un mio cliente che produce infissi in pvc avrebbe dovuto ribaltare completamente sui suoi clienti l’aumento del costo dell’energia elettrica che nell’ultimo anno si è triplicato! Peccato che quando ha tentato di farlo, i suoi principali clienti sono andati a spendere altrove o hanno comunque negoziato con lo stesso solo un limitato incremento di prezzo.

Ecco il punto: con le banche non si negozia o, meglio, non si ha la capacità e competenza per trattare.

Quando si entra in quelle cattedrali, così come ripetuto nelle scorse settimane, l’imprenditore, di solito capace di mercanteggiare con qualsiasi altro fornitore della sua azienda, accetta passivamente le condizioni imposte dal rifornitore di danaro.

Un rapporto in cui l’imprenditore è sempre down psicologicamente non solo per mancanza di competenze ma anche per una resistenza al cambiamento delle abitudini: in pratica perché ha sempre subito e non ha mai modificato il piano delle trattative. Eppure il modello di negoziazione per trattare con fornitori potenti lo conosce bene e lo sa anche utilizzare: con tutti ma non con le banche!

La negoziazione è una delle pratiche più centrali e trasversali in ogni settore di business e, allo stesso tempo, una delle più complesse. Coinvolge, infatti, capacità relazionali, componenti emotive e fattori contingenti che possono diventare di difficile governabilità, specie in tempi di acuta incertezza e cambiamento. E in un business sempre più complesso, gli imprenditori necessitano sempre più di competenze di elevato profilo, di disponibilità a ragionare fuori dagli schemi per gestire le negoziazioni con i rappresentanti dei principali fornitori di danaro: i gestori e i manager bancari.

In questi ultimi decenni, in molti settori, l’equilibrio di potere nella negoziazione si è sensibilmente spostato dai compratori ai fornitori portando il margine di scelta a restringersi con la conseguenza che i primi devono accettare il prezzo deciso dal fornitore.

Le aziende che si trovano in una posizione di debolezza nei confronti dei loro fornitori devono ridefinire il rapporto in senso strategico, affrontando il problema come una sfida vitale per la sopravvivenza. Non possono cioè più affidarsi solo alle difficili negoziazioni portate avanti da un amministratore sprovveduto o da un responsabile amministrativo che non ha alcuna competenza o formazione al riguardo.

Per facilitare questa revisione strategica, le aziende dovrebbero far riferimento a un processo sviluppato da tre dirigenti (Petros Paranikas, Bob Tevelson e Dan Beltz) di Boston Consulting Group che hanno tracciato un quadro di un percorso di negoziazione in quattro punti, disposti in ordine ascendente di rischio (di cui abbiamo parlato qui).

E che sembra proprio quello quasi mai seguito dagli imprenditori.

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