“Non vorrei sollecitare riflessioni sulle condizioni di lavoro perché poi mi arrivano richieste che non posso o non voglio soddisfare”, la sintesi di una considerazione molto frequente tra i piccoli imprenditori. Come se il silenzio, poi, riuscisse a nascondere i veri problemi che comportano le dimissioni volontarie ed un patologico turnover soprattutto nel mondo delle piccole imprese. Un fenomeno che in Italia nel 2022 ha fatto registrare quasi 1,7 milioni di dimissioni volontarie in 9 mesi, con un aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021.

E i motivi di insoddisfazione non riguardano lo stipendio. Vi meraviglierete, infatti, se leggete i risultati di una indagine condotta da Randstad, una multinazionale olandese che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane: le dimissioni volontarie sono state causate da insoddisfazione per gli incarichi (47%), da mancanza di interesse per l’attività svolta (34%) e dall’assenza di obiettivi chiari e condivisi (30%).

Ma almeno le dimissioni rappresentano un momento formale e pubblico di consapevolezza: il piccolo imprenditore, di fronte al rumore delle dimissioni, non può far finta di nulla e quantomeno deve un attimino (proprio un attimo) riflettere sulle cause e le motivazioni che hanno determinato quelle decisioni.

Il problema più grande riguarda, invece, chi resta in azienda in rumoroso silenzio, un ossimoro che, nelle piccole imprese, produce il quiet quitting, cioè l’abbandono silenzioso. Si tratta di una sorta di “disaffezione” al lavoro, una situazione in cui, secondo quanto riportato dall’istituto di ricerche Gallup nel report State of the global workplace 2022, in Italia le percentuali di engagement (l’amore per il proprio lavoro) sono ferme al 4%, rispetto a una media europea che si aggira intorno al 20%. In termini pratici, soprattutto nelle piccole imprese, questo si traduce in una scarsa attitudine al sacrificio che porta a fare il minimo sindacale senza – ovviamente – abbandonare l’azienda.

In questo caso i piccoli imprenditori fanno un errore madornale: confondono la soddisfazione di un collaboratore con la sua motivazione al lavoro. La soddisfazione è legata a quanto una persona desidera stare in una data organizzazione mentre la motivazione è connessa al livello di impegno e dedizione che si mette nel proprio lavoro.

Soprattutto non si soffermano sul fatto che alti livelli di insoddisfazione non incidono sulle performance ma sul rischio di fuoriuscita della risorsa mentre bassi livelli di motivazione non impattano sul rischio di fuoriuscita ma incidono sull’impegno e quindi sul raggiungimento degli obiettivi (performance).

In altri termini non si accorgono che i collaboratori sono soddisfatti e non lasciano l’azienda ma non sono motivati a buttare il cuore oltre l’ostacolo.

Le ragioni che spingono i lavoratori a questo comportamento sono essenzialmente individuabili nella scarsa condivisione degli obiettivi aziendali e in un senso di isolamento che si traduce in una peggiore circolazione delle conoscenze all’interno dell’azienda, in una diminuzione del senso di appartenenza, in una maggiore difficoltà a innovare, in un calo della capacità di seguire le tendenze del mercato e in un peggioramento dell’efficienza complessiva.

Come affrontare questo problema in maniera meno vigliacca, evitando cioè il silenzio (rumoroso)?

Secondo un’indagine condotta dall’agenzia per il lavoro Randstad, il 70% delle aziende che ha sperimentato un aumento delle dimissioni volontarie ha messo in atto determinate azioni per trattenere le risorse come i percorsi di formazione (30%), i momenti di ascolto e condivisione delle problematiche (29%), la maggiore attenzione alle relazioni interne (27%), i passaggi di ruolo/cambi di mansione (25%).

Nella mia esperienza ho trovato interessante creare dei gruppi di confronto tra collaboratori di diversa estrazione sociale, anagrafica e di seniority che, senza la presenza del capo (resistenti perché vedono il loro potere ridimensionato) e facilitati alla discussione da un consulente esterno, discutono dei problemi aziendali. Un brainstorming sereno, non condizionato dal terrore determinato dall’imprenditore, che, al fine di migliorare il complessivo clima aziendale, si affida alla “saggezza della folla” che è più accurata del giudizio di un individuo, come dimostrato da diversi studi in ambito psicologico e sociale.

I problemi che emergono vengono poi portati all’attenzione dell’imprenditore in forma anonima.

La reazione più frequente? Ritornate al primo rigo.

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