di Roberto Iannuzzi *

La storia del pallone cinese, come ci è stata raccontata dai media, somiglia a una scena di teatro in cui un riflettore illumina il protagonista (il pallone, nel nostro caso) lasciando in ombra il resto della scena. In realtà, è molto più significativo ciò che avviene sullo sfondo (che, come vedremo, è ambientato nel Pacifico) rispetto a ciò su cui è puntata la nostra attenzione.

Ma cominciamo dal protagonista di questa storia. Non sappiamo se fosse realmente un pallone meteorologico, come sostengono i cinesi, o un pallone spia, come affermano gli americani. Fatto sta che il Pentagono, cioè l’attore che ha fornito in esclusiva i particolari di questa vicenda, ha anche rivelato che almeno tre palloni sotto l’amministrazione Trump, e uno sotto quella Biden, avevano già lambito il territorio americano. Questi episodi farebbero parte di un piano di spionaggio cinese in atto da diversi anni in tutto il mondo.

Lo spionaggio è in ogni caso un’attività che tutti praticano, Stati Uniti compresi, e gli esperti ritengono che le informazioni fornite da un pallone spia non siano qualitativamente superiori a quelle assicurate dai satelliti. Il vantaggio dei palloni, rispetto ad aerei e satelliti, è il costo di lancio e di esercizio molto inferiore, per cui si tende ad utilizzarli in maniera integrata con questi ultimi, e gli stessi Stati Uniti stanno investendo alcuni milioni in questa tecnologia.

Ci si potrebbe dunque chiedere come mai il passaggio di un pallone, che non rappresenta una minaccia qualitativamente differente rispetto a un satellite, e che ha avuto precedenti in passato, in quest’occasione abbia provocato una crisi diplomatica che ha portato all’annullamento della visita del segretario di Stato Anthony Blinken in Cina. Gli Usa intendono forse “abituare” la propria opinione pubblica al fatto che la Cina è una “potenza ostile”, e magari spingere gli alleati europei a schierarsi?

Una risposta a questi interrogativi, legati a una vicenda molto pubblicizzata ma in realtà poco significativa, la possiamo trovare esaminando quella parte della “scena” non illuminata dai riflettori dei media. Meno propagandata, ma ben più rilevante, è infatti la visita che il premier giapponese Fumio Kishida ha compiuto a metà gennaio alla Casa Bianca, sugellando la nuova relazione di sicurezza fra Usa e Giappone, fortemente voluta da Washington in chiave anticinese.

Con l’incoraggiamento americano, Tokyo (il cui Parlamento già nel 2015 aveva modificato la costituzione “pacifista” del paese) ha deciso di portare il bilancio della difesa al 2% del Pil entro il 2027, cosa che renderebbe il Giappone il terzo paese al mondo per spesa militare dopo Usa e Cina.

Il Washington Post ha definito la decisione giapponese come l’equivalente della Zeitenwende tedesca, la “svolta epocale” annunciata dal cancelliere Scholz dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che sostanzialmente si traduce nel riarmo tedesco. Rahm Emanuel, ambasciatore Usa in Giappone, ha affermato che Biden e Kishida hanno lavorato per “ridurre le distanze fra [lo scacchiere] transatlantico e l’Indopacifico” al fine di farli rientrare in “un’unica sfera strategica”. Un segnale già lanciato dalla Nato, che a partire dal dicembre 2020 aveva annunciato l’espansione della propria cooperazione con i paesi alleati dell’Indopacifico, fra cui il Giappone.

Più a sud, Washington si è assicurata l’accesso ad altre quattro basi militari nell’ex colonia delle Filippine, che permetteranno agli americani di monitorare da vicino il Mar Cinese Meridionale e le acque antistanti Taiwan. Con questo accordo gli Usa colmano un vuoto nell’arco di alleanze statunitensi che si estende dalla Corea del Sud e dal Giappone a nord fino all’Australia a sud, completando l’accerchiamento della Cina.

Un altro tassello ce lo fornisce poi il presidente del Council on Foreign Relations Richard Haass. Egli ha scritto che il problema al centro delle relazioni Usa-Cina non riguarda i palloni e lo spionaggio, ma la necessità di limitare il sostegno cinese alla Russia e contenere le divergenze su Taiwan. Sia il documento sulla Strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, sia lo “Strategic Concept” della Nato del 2022, descrivono la Cina come la principale sfida per l’America e l’Occidente, seguita dalla Russia. A differenza di quanto fece Kissinger, ai tempi del presidente Nixon, sfruttando le divisioni fra Urss e Cina per indebolire la prima, gli Stati Uniti oggi stanno favorendo un’inedita alleanza fra Mosca e Pechino.

La scelta di optare per lo strumento della “deterrenza” militare al fine di contenere l’ascesa della potenza cinese, che fino a quel momento aveva avuto una natura eminentemente economica, fu fatta da Obama nel 2011 allorché annunciò il “pivot” (la svolta) degli Usa verso l’Asia. Tale svolta prevedeva fra l’altro il riposizionamento del 60% delle forze navali americane nel Pacifico.

Il conflitto ucraino con la Russia rischia di essere dunque la “penultima battaglia” in vista dello scontro finale con la Cina per decidere a chi spetti l’egemonia mondiale. Uno scenario tutt’altro che rassicurante, che gli Usa dovrebbero scongiurare perseguendo le vie diplomatiche piuttosto che lo strumento del contenimento militare.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC

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