di Massimo Arcangeli

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Cagnoline portasfortuna

Trastullarsi con la trottola, come per la palla (o il pallone), era un modo frequente – anche in questo caso molto comune ancora nella Roma e nell’Italia medievale – per passare il tempo sia nell’antica Grecia sia nell’antica Roma. Il nome latino dell’oggetto era turbo (gr. βέμβιξ) oppure buxus, un termine assegnato anche a flauti, pettini o tavolette da scrivere in bosso (legno concentrato e durissimo):

“[…] id summum, quid dexter senio ferret, scire erat in voto, damnosa canicula quantum raderet, angustae collo non fallier orcae, neu quis callidior buxum torquere flagello” (Persio, Saturae, III, vv. 48-51).

“(Da bambino) volevo più di tutto sapere quale fosse il vantaggio di un sei, quanto un’infausta cagnetta ripulisse le tasche, (volevo) indovinare la stretta imboccatura di un’anfora, (volevo che) nessuno (fosse) più abile (di me) nel far girare una trottola con una verga”.

La cagnetta del malaugurio era il peggiore dei tiri ai nefasti tali, i dadi quadrifacciali dei romani del tempo addietro: nella canicula – o canis, più ligio al greco κῖος – tutt’e quattro le facce, spudorate e beffarde, sfoggiavano lo stesso numero (o un segno equivalente). Più difficile stabilire quale fosse il vantaggio indicato da Persio nel senio, per ciò che sappiamo dei tali e anche per il contenuto di una lettera autografa di Augusto riportata da Svetonio. Nell’epistola si legge:

Cenavi, […] mi Tiberi, cum iisdem; accesserunt convivae Vinicius et Silius pater. Inter cenam lusimus geronticos et heri et hodie; talis enim iactatis, ut quisque canem aut senionem miserat, in singulos talos singulos denarios in medium conferebat, quos tollebat universos, qui Venerem iecerat” (De vita Caesarum, II, Vita divi Augusti, LXXI. 18).

“Ho pranzato coi soliti, Tiberio mio, [ma] hanno partecipato al banchetto [anche] Vinicio e il padre Silio. Durante il pranzo abbiamo giocato come vecchi, sia ieri che oggi; così, al lancio dei tali, chi avesse fatto 1 o 6 aggiungeva al piatto un denario per ogni dado, chi avesse estratto il colpo di Venere si accaparrava l’intera posta)”.

Chi avesse qui ottenuto quattro 6 perdeva come quello cui fossero usciti quattro 1 dovendo per di più rimpolpare il piatto con l’identica somma di quattro denari. Dov’era dunque il vantaggio di quel quadruplice 6, men che meno risolutivo a fronte del Venus pigliatutto? Forse l’imperatore Augusto, di quelle partite ai tali giocate a pranzo con alcuni suoi amici, (la cena, il pasto principale dei Romani era consumato d’abitudine fra le tre e le quattro del pomeriggio) sta descrivendo un tiro speciale.

Giochi “augusti”

È sempre Svetonio a raccontarci in questo passo i momenti di otium di Augusto:

“Exercitationes campestres equorum et armorum statim post civilia bella omisit et ad pilam primo folliculumque transiit, mox nihil aliud quam vectabatur et deambulabat, ita ut in extremis spatiis subsultim decurreret †sestertio [segestria?] vel lodicula involutus. Animi laxandi causa modo piscabatur hamo, modo talis aut ocellatis nucibusque ludebat cum pueris minutis, quos facie et garrulitate amabilis undique conquirebat, praecipie Mauros et Syros. Nam pumilos atque distortos et omnis generis eiusdem et ludibria naturae malique ominis abhorrebat” (De vita Caesarum, II, Vita divi Augusti, LXXXIII).

“Con la fine delle guerre civili, abbandonate le esercitazioni campestri con le armi e i cavalli, si era prima messo a giocare alla palla e al pallone e aveva poi preso a correre e a saltare, nell’ultimo tratto di una passeggiata a piedi o di un trasporto in lettiga, con indosso una lodicula, una piccola coperta. Per svagarsi andava ogni tanto a pescare con la lenza, oppure si divertiva a giocare coi bambini più piccoli ai tali, o con le noci, o con certi lapilli, pietruzze dalle facce segnate da una specie di occhietti (come i punti di un dado). Fanciulli belli, a tal punto, e così amabili nell’abbondante parlare, da volerli cercare ovunque – pur prediligendo Mauritani e Siri –, per averli con sé. Detestava nani, esseri deformi e loro simili. Per lui erano scherzi di natura e portatori di disgrazie”.

Le noci sono state protagoniste di tante narrazioni sulla Roma antica. Un po’ come quel che molti secoli dopo avrebbe rappresentato il “tempo delle mele” – di un film francese così tradotto: La Boum (1980) – per tanti adolescenti in crescita, negli anni acerbi della pubertà, il “tempo delle noci” era la spensierata stagione dei ragazzi e degli impuberi al tempo dell’antica Roma. L’espressione Nuces relinquere – o locuzioni simili – voleva dire esserne usciti, non esser più fanciulli o giovanetti:

Sed fas / […] ad canitiem et nostrum istud vivere triste / aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis” (Persio, Saturae, I, vv. 8-10).

“Se mi è permesso volgere lo sguardo alla vecchiaia e a questa nostra triste vita e a tutto ciò che facciamo dopo esserci lasciati alle spalle gli anni delle noci”.

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