Francesco Cilea, illustre protagonista della stagione verista del melodramma italiano, ha fatto ritorno alla Scala di Milano non con la sua opera più celebre, quell’Adriana Lecouvreur il cui successo fu talmente grande da offuscare forse la sua restante produzione operistica, ma con un vestitino tutto nuovo, moderno, tagliatogli su misura da Raffaele Cacciola che, partendo da un suo tema inedito, ne ha tirato fuori un Canto dell’amore: un tema di sole 16 battute, dal profilo quasi atonale, dal difficile ascolto ma dalle enormi possibilità in termini di relativa orchestrazione, per l’occasione ampiamente sfruttate.

A dirigere invece un musicista che, già guida dell’Orchestra Filarmonica della Calabria, ha trovato a soli 33 anni il suo glorioso debutto scaligero, il maestro Filippo Arlia. Pianista e direttore con alle spalle, nonostante la giovanissima età, una copiosissima produzione teatrale e discografica, Arlia ha saputo esibire una direzione sicura, fresca, agile e al tempo stesso rilassata, talmente serena da non far credere si trattasse della sua prima di sempre in uno dei più importanti palchi della scena mondiale.

Insieme a lui e ai virtuosi della Scala due dei migliori solisti della scena italiana, Enrico Bronzi al violoncello e Massimo Quarta al violino, quest’ultimo impegnato nella Suite in Mi maggiore, una pagina di memorabile bellezza, passione, ardore. Una partitura di caratura internazionale paragonabile per qualità di scrittura, respiro e invenzione alle più felici creazioni dei protagonisti sinfonici della seconda metà dell’Ottocento, dei Brahms, dei Tchaikovsky.

Una composizione che è testimone di una scena musicale, quella italiana, che, ancora prima dell’imponente ritorno sinfonico tributabile alla celebre generazione dell’Ottanta, non ha mai smesso di emanciparsi dalla sola, sebbene ingente, produzione melodrammatica. “Inedita-Mente Cilea”, questo il nome del progetto il cui cuore pulsante, l’operista originario di Palmi, in Calabria, negli anni dell’ultimo colpo di coda della grande tradizione lirica italiana, quello verista, diede alle stampe e poi ai teatri di tutto il mondo indimenticabili pagine operistiche: quelle, per citarne alcune, della sua immortale Adriana Lecouvreur, o ancora della Tilda, o della Gina, oltre a una copiosa produzione cameristica, pianistica e orchestrale.

Un attore tra i più illustri di quella stagione, un musicista a stretto contatto – e ne danno testimonianza i suoi copiosissimi carteggi – con tutti i più grandi artisti dell’epoca: da Umberto Giordano a Pietro Mascagni, da Enrico Caruso a Ruggiero Leoncavallo e ancora oltre, in un fittissimo scambio di idee, attestazioni di stima e scambi professionali. Lettere di grande afflato, preziosissime tanti sono i dettagli, le sfumature e le confessioni possibili, per ricostruire un tempo, quello a cavallo tra Ottocento e Novecento, in cui l’Italia, raccogliendo l’eredità dei Verdi, dei Rossini, dei Donizetti e dei Bellini, continuava a tempestare i teatri di tutto il mondo con titoli operistici ancora oggi tra i più eseguiti in ogni angolo del globo.

Un enfant prodige il Cilea, meritevole, negli anni della formazione al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, di una medaglia d’oro e una nomina a “Primo alunno maestrino” da parte del ministero della Pubblica Istruzione. A inframmezzare le esecuzioni delle varie opere in scaletta, gli interventi esplicativi del giornalista Mario Acampa, necessari per un ascolto consapevole e carichi non solo di spunti nozionistici, ma anche di vere e proprie suggestioni descrittive. Ultima in ordine d’ascolto la Piccola Suite per orchestra, una scoperta e insieme una rivelazione perché anticipatrice di intuizioni puntilliste, cromatiche e liriche che saranno proprie, a debita distanza, di compositori come Respighi, come Stravinsky. Un concerto necessario e dalle molteplici implicazioni: quella, innanzitutto, dell’obbligatorio recupero di repertori troppo spesso e troppo facilmente silenziati da abitudini d’ascolto e fruitive oramai storicizzate.

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