Ormai quello di Carlo Nordio sembra un mantra: le intercettazioni “hanno dei costi enormi, esorbitanti“, ha ripetuto nell’ultimo question time al Senato. E a quanto ammontano queste spese faraoniche? “Tra i 160 e i 180 milioni di euro l’anno“. Detta così sembra una somma eccessiva, uno dei tanti sprechi da tagliare, come i vitalizi o le auto blu. Ma a differenza di tanti altri esborsi istituzionali, quelli per gli strumenti d’indagine non sono denari buttati dalla finestra. Anzi. Ciò che il ministro della Giustizia non ricorda – pur avendo fatto il magistrato per tanti anni – è che grazie alle intercettazioni lo Stato riesce ogni anno a mettere le mani su patrimoni miliardari, confiscati (cioè tolti per sempre ai loro ex proprietari) perché riconosciuti come il provento o il mezzo di attività criminali: ville, yacht, auto, terreni da mettere all’asta, ma anche denaro (sotto forma di strumenti finanziari o depositi) da reinvestire. Un flusso continuo di entrate per le casse pubbliche che senza gli ascolti telefonici non esisterebbe. E di fronte al quale gli “esorbitanti” 180 milioni citati da Nordio semplicemente impallidiscono.

A ricordarlo, durante le audizioni conoscitive sul tema che si stanno svolgendo in Commissione Giustizia, è stato il senatore M5s Roberto Scarpinato. Uno che se ne intende, essendo stato fino a ieri uno dei più importanti pm antimafia italiani. “Grazie alle intercettazioni lo Stato ha avuto la possibilità di confiscare beni del valore di vari miliardi di euro“, ha detto intervenendo nella seduta di mercoledì 12 gennaio, rivolgendosi al presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, ascoltato in quel momento. “Ricordo che nel triennio in cui ho diretto il Dipartimento Mafia ed economia della Procura di Palermo abbiamo sequestrato due miliardi e seicento milioni di euro. Una piccola finanziaria“, sottolinea. Chiedendo a Santalucia “se in un settore estremamente sofisticato della criminalità qual è quello del riciclaggio, la riduzione delle intercettazioni possa diminuire la capacità dello Stato di recuperare risorse“. Una domanda che il capo dell’Anm definisce “retorica, perché contiene in sè la risposta“: le intercettazioni, spiega, “sono uno strumento importantissimo per accertare reati di criminalità economica. Ovviamente, se venissero depotenziate, anche la capacità di confiscare patrimoni illeciti di rilevante entità verrebbe depressa“. E quindi, conclude, “la comparazione dei costi va fatta anche su questo versante”.

Per rendersene conto, d’altra parte, basta scorrere la cronaca giudiziaria. Lo scorso 11 agosto la Guardia di finanza e i Carabinieri confiscano un tesoro da oltre 160 milioni di euro a Carmelo Ficara, imprenditore edile calabrese condannato a 12 anni per concorso esterno in associazione ‘ndranghetista nel processo “Monopoli”: un’operazione che da sola avrebbe già ripagato il costo annuale di tutte le intercettazioni d’Italia. Gli ascolti telefonici, come sempre avviene nelle indagini di mafia, erano stati fondamentali per ricostruire i rapporti dell’uomo d’affari con le cosche. Il 20 ottobre ecco un altro “colpo” da cinquanta milioni ai danni di Filadelfo Emanuele Ruggeri, boss ergastolano del clan Nardò: le ambientali lo inchiodavano mentre dava disposizioni ai familiari su come gestire il patrimonio durante i colloqui in carcere. Il 22 novembre scatta la confisca dei beni di altri due imprenditori condannati in “Monopoli”: Michele Suraci (13 anni e 9 mesi di reclusione) e Andrea Francesco Giordano (13 anni e 3 mesi). Valore? Quaranta milioni di euro. Addirittura, per superare l'”enorme” spesa per le intercettazioni basterebbe anche solo la somma dei beni immateriali (conti, depositi, fondi e polizze) confiscati nel 2022, molto inferiore a quella dei beni materiali: al 30 settembre l’ammontare di questa voce nel Fondo unico di giustizia (la “cassa” del ministero di via Arenula) era già di 162.870.785 euro.

Andando più indietro nel tempo, poi, troviamo i casi record. Come la confisca di un miliardo e trecento milioni al “re dell’eolico” Vito Nicastri, poi condannato a quattro anni e tre mesi per intestazione fittizia di beni dopo la caduta dell’accusa di concorso esterno: 43 tra società e partecipazioni societarie, 98 beni immobili, sette beni mobili registrati (autovetture, motocicli ed imbarcazioni), 66 disponibilità finanziarie. Oppure quella da 460 milioni di euro nei confronti di Mauro Balini, imprenditore ex presidente del porto turistico di Ostia (sul litorale di Roma), in affari con i clan Fasciani e Spada e arrestato nel 2015 per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta e al riciclaggio. Senza contare i numerosi sequestri e confische nati dall’indagine sulle tangenti ai politici per la costruzione del Mose di Venezia: nove milioni di euro all’imprenditore romano Erasmo Cinque (prescritto), i 625mila euro all’ex assessore regionale Renato Chisso, gli 1,2 milioni a Pio Savioli del Consorzio Venezia nuova. Peraltro, al momento degli arresti – basati su un’indagine con migliaia di intercettazioni – gli inquirenti avevano mirato un “bottino” ancora più grosso: quaranta milioni di euro il valore dei beni sequestrati dalla Guardia di Finanza nel giugno 2014. Il procuratore aggiunto che coordinava l’inchiesta parlò di una nuova Tangentopoli. Si chiamava Carlo Nordio. Chissà se se lo ricorda.

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Nordio cancella Cartabia sull’obbligo di querela per perseguire i reati di mafia. Si tornerà a procedere d’ufficio

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