di Diego Possamai

Il 3 dicembre 2008 entrava in vigore il Regolamento di Dublino III, ovvero la normativa europea che stabilisce i criteri che uno Stato membro dell’Unione deve seguire per trattare la richiesta di protezione da parte di un cittadino extra Ue o apolide. In particolare, il primo Stato che si occupa dell’ingresso dell’immigrato su suolo Ue ha la responsabilità legislativa e materiale non solo della prima accoglienza, talvolta salvataggio, ma anche e soprattutto della successiva pratica legata alla sua richiesta di asilo.

L’esame e l’accettazione della domanda rimangono di competenza dello stesso paese di arrivo, ma l’identikit dell’individuo entra a far parte di un database comune europeo accessibile da ogni altro stato membro. Il regolamento in sé non prevede alcun obbligo di ricollocamento interno all’Unione se non per fini di ricongiungimento familiare e di tutela dei minori e inoltre non accenna ad alcun tipo di redistribuzione verso paesi terzi e contestualmente non include nessuna sanzione verso chi non partecipa al fantomatico meccanismo di accoglienza.

Lo stesso accordo di assistenza firmato a giugno (First step in the gradual implementation of the European Pact on Migration and Asylum: modus operandi of a voluntary solidarity mechanism – French Presidency of the Council of the European Union 2022) non è altro che una dichiarazione di intenti non vincolante che dovrebbe impegnare gli Stati membri ad esaminare maggiormente e più velocemente le richieste d’asilo, ed è stato recentemente bloccato dallo stato francese a seguito del caso Ocean Viking degli ultimi giorni.

Siamo di fronte ad un sistema (quello di Dublino) logicamente fallimentare nato per snellire le procedure di asilo e per togliere pressione ai paesi di frontiera, ma che ha causato l’effetto diametralmente opposto: ha esacerbato la pressione verso i paesi della prima accoglienza, tra cui il nostro, aumentando responsabilità e costi, costringendo spesso a misure di emergenza e facendo nascere evidenti problemi negli hotspot e nelle zone adibite al primo soccorso.

I flussi saranno costantemente in crescita negli anni a venire, come sarà possibile circoscrivere la questione alla sola area mediterranea e balcanica prevedendo un contenimento degli sbarchi e delle entrate che ha visto risvolti disumani, dai lager libici fino alle sistematiche pratiche di “deterrenza” attuate sul confine tra la Serbia e l’Ungheria (leggasi il dettagliato rapporto di Medici Senza Frontiere in merito). Come può un fenomeno di tale portata essere affrontato solo attraverso accordi sporadici e senza una strategia comune che obblighi ogni singolo stato membro a partecipare non solo al ricollocamento, ma all’assistenza, prevedendo talvolta sanzioni e procedure verso chi non rispetta eventuali intese?

Sarebbe forse necessario da parte della politica e di chi si occupa di diritto internazionale denunciare la vera e propria mancanza di un’adeguata e ferrea legislazione sul tema, ponendo in essere una critica verso la fragilità con cui le istituzioni europee hanno affrontato una questione di importanza vitale; sull’immigrazione non è solo in gioco la vita di centinaia di migliaia di disperati, ma l’esistenza stessa di un organismo sovranazionale che, almeno teoricamente, dovrebbe fare dell’integrazione e della coesione territoriale un fondamento della propria realtà.

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