Dopo i fatti di Catania, la Ong Sos Humanity si è rivolta al Tar del Lazio contro gli sbarchi selettivi introdotti dal governo con la direttiva interministeriale del Viminale. Nell’attesa che si pronuncino i giudici amministrativi lo scontro tra governo e organizzazioni umanitarie potrebbe però complicarsi per l’introduzione di nuovi provvedimenti. Al lavoro è ancora il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che potrebbe partorire un nuovo codice di condotta per le organizzazioni che varcano le nostre acque territoriali. Le possibili novità sono state anticipate dal Corriere della Sera e si va dall’obbligo di intervenire solo in caso di effettivo pericolo per i migranti a quello di comunicare l’intervento alle autorità, dalle sanzioni al possibile sequestro della nave. Non solo, le Ong che intendono trasportare centinaia di persone dovranno essere “attrezzate a farlo“, ha anticipato palazzo Chigi. Ma di nuovo non c’è davvero nulla. E quando non ricalcano il controverso codice di condotta introdotto dal governo Gentiloni nel 2017, le proposte annunciate cozzano contro le sentenze dei tribunali, compresa la Corte di giustizia europea che ad agosto si è espressa sui poteri di controllo dello Stato di approdo.

“Se annunci una missione per andare nel Mediterraneo a trasportare centinaia di persone allora devi essere attrezzato per questo. Ma ciò non accade e quindi le persone che vengono trasportate dalle Ong sono esposte a rischi e difficoltà, un profilo di illegalità finora non perseguito”, ha detto a Libero il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianbattista Fazzolari (FdI). Nulla di nuovo e, come accaduto ad altre navi, la Sea Watch 3 dell’omonima Ong tedesca è sotto fermo amministrativo dallo scorso settembre perché nell’ultimo soccorso in mare avrebbe trasportato troppe persone. Un pericolo peraltro non considerato negli 11 giorni in cui la nave è rimasta in attesa di un porto. Ma già ad agosto la Corte di giustizia dell’Unione (Cgue) si era espressa nel merito, dopo l’interpello del Tar della Sicilia al quale si è rivolta la stessa Sea Watch per altri due fermi risalenti al 2020, imposti dalle Capitanerie di porto di Palermo e Porto Empedocle e benedetti dall’allora ministra di Infrastrutture e trasporti Paola De Micheli (Pd) che contestava soccorsi sistematici senza che la nave fosse attrezzata o certificata.

Il principio affermato dalla Corte di giustizia è chiaro: il numero di persone soccorse a bordo non conta ai fini delle convenzioni internazionali per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) e lo Stato di approdo non può richiedere alle imbarcazioni certificazioni diverse da quelle la cui validità è stata confermata dallo Stato di bandiera. Inoltre, dice la Cgue, le Ong non hanno bisogno di alcuna autorizzazione da parte dello Stato di approdo, neppure quando svolgono attività di ricerca e soccorso in maniera sistematica. Di più, “la Corte ha messo dei paletti all’attività ispettiva e ai fermi dello Stato di approdo che non può contestare l’idoneità certificata dallo Stato di bandiera se non sulla base di concreti elementi di pericolo”, spiega Lucia Gennari, uno degli avvocati che ha seguito la causa. Che precisa: “A meno che la nave sia del tutto inidonea alla navigazione, la Corte sancisce che non può esserle impedito di adempiere a un obbligo come il salvataggio in mare”. Una sentenza che renderà più difficile per il ministero dei Trasporti e delle infrastrutture, ora in mano a Matteo Salvini, rilanciare la strategia che in questi anni ha ostacolato la flotta umanitaria.

C’è poi l’ipotesi di un obbligo di comunicare il tipo di intervento effettuato al Paese più vicino, perché possa valutare se davvero c’erano migranti in pericolo. Regole che apparivano già ridondanti nel codice del 2017 voluto dal Viminale di Marco Minniti, che chiede alle Ong di “osservare l’obbligo previsto dalle norme internazionali di tenere costantemente aggiornato il competente Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo in merito allo scenario in atto ed all’andamento delle operazioni di soccorso”. Obbligo già “previsto”, appunto. E rispettato, come confermato finora dalla magistratura. Ma anche a voler rilanciare accuse mai provate come quella di agevolare i trafficanti, nel codice di Minniti c’è già tutto: “Non effettuare comunicazioni o inviare segnalazioni luminose per agevolare la partenza e l’imbarco di natanti che trasportano migranti”. Manca invece l’altra ipotesi anticipata dal Corriere, quella di costringere le Ong a spegnere l’Ais (Automatic identification system), il sistema che indica in tempo reale la posizione della nave. E manca perché oltre le 300 tonnellate di stazza è obbligatorio.

Eppure il nuovo esecutivo rilancia, e vorrebbe addirittura un regolamento di condotta firmato dall’Unione europea, come suggerisce il ministro degli Affari esteri Antonio Tajani, convinto che “le ong devono salvare vite, non fare i taxi”. Intanto i dati smentiscono anche l’ultima carta in mano al governo, un documento riservato dell’Agenzia europea Frontex col quale si vorrebbe provata la teoria dei viaggi incentivati dalla presenza delle Ong (pull factor), in un periodo, i primi 4 mesi del 2021, dove le partenze quotidiane erano maggiori quando le Ong non erano operative (dati elaborati dal ricercatore Ispi Matteo Villa). Ma sono ancora una volta le sentenze della nostra magistratura a mostrare come la strada che il governo si appresta a ripercorrere è tutta in salita, per non dire inutile. Il caso di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch che violò il divieto di ingresso nelle nostre acque e nei porti chiusi dai decreti del governo Conte, la dice lunga sull’effettiva possibilità di sanzionare le Ong e sulla legittimità di eventuali fermi e sequestri. Tutte le decisioni, compresa quella della Corte di Cassazione, approvano il comportamento di Rackete, dichiarando di fatto illegittimi i decreti voluti da Salvini perché secondo il diritto internazionale del mare chi ha soccorso dei naufraghi, chiunque siano, ha il dovere di portarli al più presto in un luogo sicuro, che secondo la Convenzione di Amburgo è non solo un posto dove sbarcare tranquilli, ma il luogo dove le persone salvate non siano esposte al rischio di violazione dei diritti fondamentali.

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