Quanto deve durare il debito?”, la domanda a cui, molto spesso, danno una risposta sbagliata in tre: i piccoli imprenditori, le banche e i consulenti.

I motivi? Sono due. Il primo, analizzato la settimana scorsa su queste pagine, riguarda il fatto che frequentemente si ricorre al debito finanziario semplicemente per coprire (o allungare) altro debito e, in tal caso, l’emergenza e l’urgenza di sistemare le posizioni debitorie mandano in confusione gli attori. La seconda motivazione, oggetto dell’approfondimento odierno, attiene, invece, ad una profonda violazione dei principi “fondamentali” della gestione finanziaria di impresa.

Prendiamo il caso del debito a medio-lungo termine o rateale. In questo caso in finanza esiste un assioma tanto evidente quanto poco seguito: far collimare la durata del passivo a quella degli attivi e non il contrario! Questo principio fondamentale per creare una struttura finanziaria equilibrata si basa sul presupposto di correlare sempre gli investimenti alla durata dei prestiti ottenuti per finanziarli.

In altri termini se chiedi un prestito per acquistare un macchinario devi calcolare la durata in maniera simmetrica altrimenti la struttura finanziaria crolla perché, ricordiamoci, che il “debito si fa guardando l’attivo”. Nel caso in cui il debito vada oltre la vita utile dell’investimento continui a pagare un costo per un bene che non produce più utilità per l’azienda. Il modo migliore per evitare questi errori è, quindi, collegare il rientro del capitale preso in prestito alla durata economica dell’investimento.

Nella maggior parte dei casi, quando si tratta di investimenti in macchinari, attrezzature o altri beni che possono essere utilizzati per più anni di attività (immobilizzazioni), i tre attori (piccoli imprenditori, banche, consulenti) utilizzano un calcolo che può essere approssimato facilmente prendendo come riferimento la durata dell’ammortamento previsto dalla normativa fiscale.

Così, ad esempio, se la vita fiscale prevista per quel tipo di bene è di cinque anni bisognerà scegliere una fonte di finanziamento da ripagare in cinque anni. Ma i piccoli imprenditori, le banche e i consulenti incappano sistematicamente in un errore vitale per la sopravvivenza di tutti i soggetti coinvolti. Non sono attentissimi a distinguere la durata fisica di un bene (ossia il numero di anni di integrità e di funzionamento del cespite detta anche senescenza) dalla durata economica (ossia il tempo di effettiva utilità del bene, detta anche obsolescenza) influenzato dal progresso tecnologico che potrebbe quindi rendere superato un bene anche se ancora integro o funzionante.

In tal caso la durata del passivo, secondo uno schema prudenziale adottato ad esempio dalle banche e dai consulenti virtuosi, deve essere parametrato alla durata economica del bene e pertanto, in caso di incertezza o impossibilità ad effettuare una stima statisticamente rilevante, si utilizza il cosiddetto positive duration gap, ossia si taglia il 20% della durata economica del bene.

Se un macchinario si presume possa essere effettivamente utilizzato per 8 anni è opportuno stipulare un mutuo a 6,5 anni [8 –(20%*8)]. Ma la violazione dei principi basici più deleteria (sempre per tutti) riguarda la mancata osservanza di una semplice equazione: i fidi a breve (scoperti di conto, anticipo crediti, anticipo fornitori) finanziano il capitale circolante mentre i fidi a m/l termine (mutui, leasing, ecc) finanziano il capitale immobilizzato.

La crescita del circolante (composto da quelle voci che, “circolando”, si tramutano in breve tempo in entrate e/o uscite di liquidità: il totale dei crediti verso clienti più il valore delle rimanenze meno il totale dei debiti verso fornitori per merci) – il cui finanziamento è spesso cruciale per le imprese in forte crescita – richiede risorse diverse (a breve termine, di solito) da quelle necessarie (a medio – lungo termine) per costruire nuovi impianti o sviluppare nuovi prodotti.

Quante volte ho visto incrociare questa equazione con danni irreparabili per la sopravvivenza dell’azienda scoperti di conto corrente per l’acquisto di un capannone e mutui per pagare le “tredicesime” ai dipendenti! E le conseguenze, poi, le pagano tutti: le piccole imprese che vanno in default, le banche che producono Npl (Non performimg loans) e i consulenti che perdono fatturato.

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