Vorrei contestualizzare l’articolo scientifico sull’antibiotico-resistenza pubblicato nel settembre 2018 sul Lancet Global Health (Estimating the number of infections caused by antibiotic resistant Escherichia coli and Klebsiella pneumoniae in 2014: a modelling study) e commentato sul Fatto Quotidiano del 15 ottobre 2022 da Valentina Di Paola.

L’amplificazione del fenomeno dell’antibiotico-resistenza è anch’esso riconducibile ad una questione ecologica nella misura in cui si pone in termini di rottura di un equilibrio dinamico tra attività antropica ed ambiente inteso nella sua più ampia accezione di habitat in grado di assorbirne colpi destabilizzanti. Così come l’uomo si è adattato all’ambiente per sopravvivere, attraverso la sua millenaria evoluzione darwiniana, in analogo modo si comportano i batteri – i più antichi abitanti del pianeta Terra – a fronte di condizioni sfavorevoli alla loro vita, però in tempi molto più rapidi, soprattutto se sollecitati di continuo. Ed è proprio questo gap temporale “tra noi e loro” che fa problema.

Ricordiamo che per antibiotico resistenza, rivolta ad una singola molecola (AMR acronimo di AntiMicrobial Resistance) o a più molecole contemporaneamente (MDR acronimo di MultiDrug Resistance), s’intende la capacità acquisita da un microorganismo di sopravvivere a concentrazioni di antibiotico che in precedenza risultavano sufficienti ad inibirne la moltiplicazione o ad ucciderlo.

Questa proprietà può essere spontanea a seguito di una mutazione genetica non contrastata dalla cellula batterica attraverso le proprie autodifese, esattamente come accade per la specie umana, ma ciò costituisce un evento raro. Ben più frequente è invece è la resistenza indotta da uno stimolo costante che si realizza tramite la dislocazione di alcuni geni – segmenti di DNA che esprimono codici ossia “parole d’ordine” per l’attività cellulare – all’interno del DNA della stessa popolazione batterica o addirittura di altre. Si ottiene così un effetto diffusivo imponente dato l’illimitato numero di combinazioni possibili all’interno delle diverse molecole di DNA batterico che censurano le parole d’ordine originarie con cui la cellula batterica risulterebbe sensibile a quello specifico antibiotico. Queste vengono sostituite con altre parole d’ordine in grado d’ingannare l’antibiotico impedendogli di raggiungere il bersaglio, oppure di distruggerlo direttamente attraverso la produzione di particolari enzimi o ancora di espellerlo dalla propria cellula prima che la possa danneggiare. Un armamentario tattico ad ampio spettro.

La controffensiva farmacologica è stata quella di produrre nuovi antibiotici in grado di vincere la resistenza opposta dai batteri in una vera e propria escalation che da una parte ha comportato la perdita di efficacia da parte di un numero sempre più elevato di antibiotici, dall’altra la creazione di nuove molecole che stentano però a compensare la velocità con cui si esprime la capacità adattiva degli stessi batteri. Insomma, una vera e propria guerra che si rischia di perdere sul campo e che si aggiungerebbe alla già altrettanto grave crisi prodotta dal cambiamento climatico e dall’inquinamento più in generale. Per questo l’antibiotico resistenza è diventata una minaccia per la salute pubblica decretata dalla stessa OMS, essendo stato dimostrato che in ambiente la numerosità e la diversità di geni e batteri resistenti agli antibiotici è strettamente correlata all’impatto causato localmente dalle attività umane.

Il più recente rapporto europeo del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC, 2020) sull’antibiotico-resistenza riporta che in Europa sono oltre 33 mila i decessi all’anno associati ad infezioni antimicrobico-resistenti, di cui ben un terzo in Italia, il Paese con il più elevato consumo di antibiotici e sviluppo di resistenze sia in ambito veterinario che medico ospedaliero.

Ogni anno vengono vendute nel mondo decine di migliaia di tonnellate di farmaci per uso umano e veterinario, ma i due terzi della quantità di antibiotici utilizzati è impiegata nella produzione di alimenti di origine animale che, se da una parte hanno ridotto in modo importante il rischio d’infezioni batteriche, dall’altra hanno specularmente elevato quello da antibiotico-resistenza.

Bisogna considerare che più della metà di un principio farmacologico attivo, soprattutto se somministrato per via orale, non viene assorbito dall’organismo e quindi viene escreto negli scarichi, le cui acque reflue difficilmente smaltite in modo adeguato pur ricorrendo alle più avanzate tecnologie, finiscono per contaminare l’ambiente.

Anche se non tutti gli antibiotici sono a lungo persistenti, in quanto si degradano abbastanza rapidamente, la loro continua e massiccia immissione in ambiente ne rende una presenza costante. Raggiungono così le acque reflue urbane, di agricoltura intensiva, di distretti industriali e, ove presenti, gli impianti di depurazione, per poi, di solito non totalmente rimossi, immettersi in corsi d’acqua, laghi e mari, oppure in suoli come fanghi di depurazione destinati a concime per i campi. Sono descritti fenomeni di bioaccumulo in piante ed animali che ne amplificano la loro diffusione in ambiente.

In questo contesto, la Direttiva europea quadro sulle Acque (Direttiva 2000/60/CE) ha stabilito i criteri per proteggere le acque superficiali, costiere e sotterranee e migliorare lo stato degli ecosistemi, nonché promuovere un uso idrico sostenibile basato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili e contribuire a mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità. La direttiva stabilisce per la prima volta la necessità di definire un elenco progressivamente aggiornato ed implementato di sostanze cosiddette pericolose, per le quali sono fissati valori soglia da monitorare e rispettare.

Alcuni Paesi in particolare hanno iniziato già da tempo ad affrontare l’insorgenza di antimicrobico resistenze con un approccio regolatorio a livello nazionale. In Norvergia, l’uso di antibiotici nella produzione alimentare è molto ridotto e rigorosamente regolato, talché la probabilità di sviluppo di resistenza antimicrobica, ad esempio nei pesci di allevamento, e la conseguente trasmissione in altre comunità microbiche naturali e all’uomo, rimane molto bassa. In Svezia, è stato messo a punto un modello per la classificazione dei farmaci in base alle loro caratteristiche ecotossicologiche. Ne è derivato un opuscolo in cui tutti i principali farmaci utilizzati sono stati classificati non solo in base alla loro azione, ma anche rispetto ai rischi ambientali correlati al loro utilizzo, con indicazione di prescrivere, a parità di target microbico, quelli maggiormente ecocompatibili.

In Svizzera si è adottata un’ordinanza per la protezione delle acque superficiali da microinquinanti che prevede l’obbligo di introdurre nei depuratori tecnologie di trattamento particolarmente avanzate. Al proposito, è segnalato che più dei disinfettanti e delle radiazioni UV, che comportano sempre il rischio di selezionare specie microbiche sopravvissute ai trattamenti e quindi ancor maggiormente resistenti, vale l’allungamento dei tempi di ritenzione dei reflui nelle vasche di sedimentazione dove i fattori ecologici naturali (competizione, predazione) selezionano comunità microbiche più simili a quelle naturali, in cui i batteri di origine antropica hanno pochissime possibilità di sopravvivere. Questo tipo di intervento presupporrebbe però un investimento nella riprogettazione di molti impianti di trattamento attualmente esistenti.

L’orizzonte in cui ci si deve muovere, non può che essere quindi quello della One Health, la salute globale, dove ricerca e prevenzione sono chiamate a coinvolgere già in fase di progettazione il settore umano, veterinario, e ambientale, semplicemente perché le interconnessioni dell’habitat in cui viviamo non offrono alternative possibili per la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta Terra.

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