“Io piuttosto che ridarti indietro l’azienda te la brucio con la benzina”. Così parlava, nel luglio 2019, Francesco Patamia, candidato di Noi Moderati alla Camera nel collegio di Piacenza e arrestato dalla Guardia Finanza in un’inchiesta del pm Marco Forte della Dda di Bologna che ha portato all’esecuzione di misure cautelari a carico di 23 persone ritenute affiliate o contigue alle ‘ndrine dei Piromalli di Gioia Tauro e ai Mancuso di Limbardi. Patamia è finito in carcere, così come il padre Rocco, e a suo carico ci sono diversi capi d’accusa. Compresa l’estorsione, aggravata dal metodo mafioso, per rapporti intercorsi con la cosca Piromalli riguardo alcuni investimenti.

L’indagine è partita dalla segnalazione di vari investimenti anomali, nel campo della ristorazione, da parte del sindaco Pd di Cesenatico, Matteo Gozzoli. Parlando con gli investigatori nel luglio 2019, il primo cittadino spiegava inoltre che Rocco Patamia era stato autore di minacce verso un agente della polizia municipale, chiedendo “se avesse figli”. Il sindaco di Cesenatico, 36 anni, ha sottolineato che già a partire dall’estate del 2018 aveva segnalato al prefetto di Forlì-Cesena che molte delle attività della della famiglia Patamia erano state cedute, tra le quali un ristorante e una piadineria. L’unica attività ancora attiva, per Gozzoli, sarebbe stato un hotel, acquistato dalla famiglia Patamia e poi affittato nel novembre 2018 con una “gestione sui generis”, perché si tratta di “un albergo rimasto chiuso anche durante le festività pasquali e in occasione della Sette Colli, gara ciclistica che richiama turisti. Al momento – sottolineava il sindaco – l’attività parrebbe ancora chiusa e per quanto attiene al territorio la gestione è anomala”.

Nell’episodio intercettato citato in precedenza, gli indagati, secondo le accuse, costrinsero la vittima ad accettare condizioni diverse e più gravose da quelle pattuite in occasione della stipula del contratto di cessione di un ramo d’azienda, con sede del Ravennate. “Se ti rivolgi a un avvocato sappi che ci saranno delle conseguenze”, è un’altra delle frasi intimidatorie agli atti dell’inchiesta. Patamia, fondatore del Partito Europei Liberali, e il padre sono ritenuti dagli inquirenti promotori di un’associazione a delinquere ‘semplice’ per commettere una serie di reati come bancarotta, autoriciclaggio, intestazione fittizia e estorsione.

Il giudice per le indagini preliminari Domenico Truppa, in un passaggio dell’ordinanza dove dispone il carcere per quattro persone e misure cautelari per altre 19, spiega che gli indagati “per ottenere il risultato programmato dell’associazione non si sono fatti scrupoli nel corso del tempo di utilizzare quelle modalità, prima minatorie e, successivamente, coercitive, nei confronti dei pochi soggetti che hanno manifestato reazioni (seppur legittime) potenzialmente dannose verso l’intera associazione o verso il singolo”. Il giudice evidenzia una “assoluta professionalità criminale” da parte degli indagati “nell’agire mediante condotte estremamente efficaci, tant’é che i vari episodi violenti” sono “caratterizzati dall’assenza di formale denunce da parte delle vittime, che hanno preferito subite una condotta ingiusta ed economicamente penalizzante, piuttosto che rischiare di patire le ripercussioni paventate”. Per altro verso “a fronte di carature criminali di spiccato rilievo” è emersa nel corso dell’indagine “la necessità di mantenere un ‘basso profilo’ tale da non attirare l’attenzione”.

Per il comandante della Guardia di Finanza dell’Emilia-Romagna, Ivano Maccani, l’inchiesta conferma che anche in territori del Nord “le mafie operano e lo fanno sotto traccia, lo fanno senza chiasso, senza rumore”. Il generale ha sottolineato come sia stato ricostruito il modus operandi “in piccole ‘cellule’, guidate da dei boss che assumevano la funzione di manager”. Manager, ha rimarcato, “assetati di investimenti”. I reati contestati a vario titolo ai 34 indagati sono associazione a delinquere, trasferimento fraudolento di valori, autoriciclaggio, bancarotta fraudolenta, usura, lesioni personali e minacce. Tutto ruota attorno ad una serie di investimenti illeciti, molti dei quali avvenuti in piena pandemia, soprattutto nelle province di Ravenna e Forlì Cesena, che hanno riguardato nel tempo negozi, bar e società nel campo dell’edilizia, della ristorazione e dell’industria dolciaria. In totale sono stati sequestrati circa 30 milioni di euro.

I finanzieri, intercettando oltre 60 utenze telefoniche e analizzando circa 100 conto correnti, hanno ricostruito un “vorticoso giro” di aperture e chiusure di società che, formalmente interessate a prestanome, venivano utilizzate come mezzo per riciclare il denaro che arrivava dalla ‘casa madre’ in Calabria. Questo era possibile grazie all’utilizzo di fatture false, spesso preordinate al trasferimento di ingenti somme di denaro e al compimento di distrazioni patrimoniali. Le cellule che agivano in Emilia-Romagna erano autonome, ma considerate vicine alle ‘ndrine egemoni a Gioia Tauro e Limbadi. Alcuni degli indagati sono responsabili di diversi episodi di intimidazione e minacce, e in alcuni casi di violenze ai danni degli imprenditori che si sono rifiutati, o hanno tentato di farlo, di ‘obbedire’ alle richieste. Nell’inchiesta sono finiti anche un commercialista e un’avvocato, entrambi d’origini calabresi, che operano su Modena, entrambi interdetti per un’anno dall’esercizio della professione, che per gli investigatori agivano come ‘consiglieri’ dei gruppi.

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