La campagna elettorale appena conclusa ha ampiamente dimenticato il tema della non autosufficienza. Se si esclude qualche intervento sporadico da parte di appassionati del settore, l’argomento è stato letteralmente disatteso dalla quasi totalità dei partiti, che nei programmi elettorali si sono limitati a inserire isolati e generici richiami alla necessità di adeguare le pensioni. Eppure, le occasioni per comprendere l’assoluta centralità di questo tema non mancavano.

Da un lato ci sono i numeri della realtà: su 9 milioni di persone con oltre 75 anni che vivono in Italia, 2,7 milioni sono in condizioni di non autosufficienza (NAT), 1,2 milioni sono soli o mancano di adeguata protezione. Sono numeri destinati a crescere – l’Istat stima che entro il 2030 il numero dei NAT potrebbe addirittura raddoppiare – che coinvolgono strutture protette, residenziali, semi-residenziali, assistenza domiciliare e familiare e generano un indotto imprenditoriale e lavorativo di assoluta rilevanza.

Dall’altro lato, ci sono gli impegni assunti con il Pnrr che ha imposto (Missione 5, Misura 2.2) di approvare una riforma organica della Non-autosufficienza entro la primavera 2023 emulando finalmente quanto fatto da decenni negli altri Paesi europei (Germania nel 1995, Francia nel 2002, Spagna nel 2006). Su questo dossier è stato da tempo costituito un network di 52 associazioni, che nei mesi scorsi ha incalzato il governo per accelerare il processo di riforma. L’approvazione in Consiglio dei Ministri della legge delega era attesa per l’estate, ma i continui rinvii – l’ultimo nel CdM della scorsa settimana – non hanno finora permesso di concludere questo primo decisivo passaggio.

Certo è che se il nostro governo avesse assicurato alle domande e ai problemi della non-autosufficienza un decimo dell’attenzione e della passione riservata alle richieste di Nato e Ucraina, oggi potremmo sicuramente avere le risposte che ancora mancano.

Nel frattempo, i costi e i problemi aumentano a dismisura. Si pensi, ad esempio, alle Rsa. Nei primi sei mesi del 2022 i costi energetici delle Rsae dei Centri diurni sono lievitati del 60% (Fonte Uneba). A questi va aggiunto l’adeguamento dei prezzi anche sui costi alimentari (+9,5% su base annua), sugli altri beni di consumo, sui costi assicurativi e su quelli dei dispositivi di protezione individuale. Poi c’è il tema del personale che manca e dei costi che lievitano: sempre Uneba stima che solo nell’ultimo anno il costo del lavoro nelle Rsa – cioè in strutture labour intensive dove il personale incide oltre il 70% sui costi complessivi – è aumentato del 3,5%. A far le spese di questa situazione, in assenza di interventi concreti da parte delle istituzioni, sono in prima battuta le strutture no-profit e le famiglie.

Sia nel dl Aiuti sia nel dl Aiuti bis, i sostegni al Terzo settore sono stati letteralmente dimenticati. Solo il dl Aiuti ter ha assegnato quote di ristoro sulle bollette stornandole in buona parte dal fondo per la disabilità. Queste risorse sono però ancora sulla carta in attesa dei provvedimenti attuativi.

Anche le Regioni si sono attivate. Ad esempio, la Lombardia ha parzialmente incrementato del 2,5% i propri stanziamenti a favore della rete socio-sanitaria. Si tratta però di un aiuto insufficiente che copre solo in minima parte i fortissimi rincari dei costi di gestione e funzionamento delle strutture.

L’esito di queste dinamiche è scontato: tutte le strutture socio-sanitarie saranno costrette ad aumentare in misura rilevante le rette a carico delle famiglie con il conseguente rischio che una quota dell’utenza non riesca a reggere l’impatto e vada ad incrementare le situazioni di morosità.
In questo contesto sarebbe senz’altro utile che il governo, oltre ad accelerare l’approvazione della riforma organica del settore, possa seriamente valutare qualche misura aggiuntiva di sostegno e di agevolazione. Gli esempi non mancano: per le imprese profit, ad esempio, con il dl Aiuti, la Sace, gruppo assicurativo storicamente controllato dal ministero dell’Economia e delle Finanze, è stato autorizzato ad intervenire a sostegno delle imprese produttive tutelando i loro crediti in caso di insolvenza dei debitori. Perché non estendere questo beneficio anche al Terzo settore?

Ancora, sempre Sace, col sostegno del governo, ha presentato la ricetta per superare il caro-bollette: rilascerà a tutte le imprese consumatrici di energia delle garanzie contro-garantite dallo Stato italiano per favorire la rateizzazione delle bollette fino a 24 mesi. Peccato che fra le “imprese consumatrici di energia” siano esplicitamente esclusi gli Enti del Terzo settore. Forse che gli Ets possono svolgere la loro – così meritoria – attività al freddo? L’assistenza agli anziani (oltre che ai minori e ai disabili) deve forse essere garantita en plein air a sottolineare una presunta minor importanza di queste persone rispetto ai forti e valenti “produttori di ricchezza”?

E’ con amarezza che sovviene l’affermazione dell’antropologa Margaret Mead; interrogata su quale fosse il primo segno di civiltà di una cultura, ha risposto “un femore rotto e poi guarito. Nel regno animale se ti rompi una gamba, muori: non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo, sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te… Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con chi è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia”.

Aiutare il Terzo Settore dedito alla non-autosufficienza è segno di civiltà e di lungimiranza. Ma il sostegno delle istituzioni deve uscire dalla logica compassionevole e caritatevole che ha sempre caratterizzato gli interventi in un settore che è davvero strategico per il futuro del nostro Paese.

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