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Fibrosi cistica, così gli scienziati di Yale hanno ridotti i sintomi nei polmoni e nell’intestino

Gli esperti hanno valutato l’efficacia del trattamento su un modello murino e su tessuti umani prelevati da pazienti epilettici
Fibrosi cistica, così gli scienziati di Yale hanno ridotti i sintomi nei polmoni e nell’intestino
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La fibrosi cistica è una grave malattia genetica, causata da una mutazione nel gene CFTR. Associata a circa un portatore sano su 30 persone in Italia, questa condizione può provocare effetti molto gravi, ma le strategie di intervento sono ancora limitate ai sintomi e alla prevenzione degli effetti più gravi. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances e condotto dagli scienziati dell’Università di Yale, mostra un possibile approccio per contrastare la malattia.

Il gruppo di ricerca, guidato da Alexandra Piotrowski-Daspit, ha utilizzato un modello murino per valutare l’efficacia e la tollerabilità della terapia, che potrebbe aiutare moltissimi pazienti. La fibrosi cistica, spiegano gli esperti, è una malattia genetica e congenita ereditaria dovuta alla mutazione di uno specifico gene. Ci sono oltre 1.700 tipologie di alterazioni genetiche che possono portare alla problematica, ma la più comune è associata alla mutazione F508del. La fibrosi cistica altera la composizione delle secrezioni prodotte da molti organi, generando infiammazione e infezione che possono culminare in insufficienza respiratoria. I ricercatori hanno sviluppato degli editor del gene dell’acido nucleico peptidico (PNA) incapsulati all’interno di nanoparticelle polimeriche biocompatibili, che possono essere utilizzati per contrastare i sintomi della condizione clinica.

Gli esperti hanno valutato l’efficacia del trattamento su un modello murino e su tessuti umani prelevati da pazienti epilettici. Secondo quanto riportato dal gruppo di ricerca, questo approccio ha portato a un parziale ripristino della funzione del gene, riducendo i sintomi della fibrosi cistica nei polmoni e nel tratto gastrointestinale degli animali. Questi risultati suggeriscono che le nanoparticelle potrebbero quindi rappresentare una strategia utile a fornire un trattamento sistemico per la malattia. Sarà necessario proseguire gli approfondimenti sul tema, concludono gli autori, per validare questi risultati, ma i dati preliminari sembrano molto promettenti.

Lo studio

Valentina Di Paola

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