Cultura

Eros e libido, da Traviata a Rigoletto: ma quanto è hot la lirica. Così l’opera è passata dallo scandalo per un piede alla sua rivoluzione sessuale

Il musicologo Federico Fornoni descrive la traiettoria incrociata tra erotismo e recitar cantando in particolare a partire dalla fine dell'Ottocento. Anche se qualche libretto di successo del Seicento era molto più "libero"

di Giuseppina La Face

Nella fiaba seicentesca, Cenerentola viene riconosciuta perché la scarpina aderisce al suo piedino, non ai piedoni delle sorellastre. Nell’omonima opera di Rossini (1817), invece, la calzatura è sostituita da un braccialetto. E ciò per salvaguardare la pudicizia. Mostrare un piede femminile agli spettatori, a quei tempi, era disdicevole. Siamo dunque ben lontani dall’aristocratico alluce di Sarah Ferguson (Fergie per i tabloids), duchessa di York, succhiato dal miliardario texano John Bryan: nel 1992, le foto deliziarono i lettori di tutto il mondo, e la rossa Fergie fu appellata, senza colpo ferire, Duchessa di Pork; segno che in un secolo e mezzo i costumi erano mutati. Ma anche il teatro lirico non rimase nell’Ottocento quello di Rossini. Nella Bohème (1897), Giacomo Puccini, in contrasto con i librettisti, volle che Musetta seducesse Marcello fingendo un male al piede. Et voilà, il piedino fu esibito agli occhi del pubblico torinese della “prima”.

Questi sviluppi di ordine sessuale (o diciamo del “comune senso del pudore“) avvenuti nel teatro d’opera li racconta il musicologo Federico Fornoni in un libro dotto e attraente: L’opera a luci rosse: seduzione e sessualità nel melodramma del secondo Ottocento (Leo S. Olschki, 408 pagg., 40 euro). Prostituzione, adulterio, congresso carnale, malattia, non sono temi agevoli. Da un lato, nell’Ottocento, così come oggi, ci sono i comportamenti quotidiani: donnine facili, corna, ossessioni e malanni sempre sono esistiti ed esisteranno. Dall’altro, c’è però un’impalcatura morale e sociale che impone regole e che indirizza l’arte in direzioni (quasi) obbligate. Chi scrive un melodramma – librettista o musicista – non può non tenere conto di tale sovrastruttura, sotto il ferreo giogo della censura. Della sessualità, anche a quei tempi, si interessano in molti: la Chiesa, per la quale l’atto sessuale è finalizzato alla procreazione, e va dunque consumato nel matrimonio; gli scienziati – biologi, medici, più tardi psicoanalisti – che avocano a sé il diritto di parlarne. E spesso le loro indicazioni esaltano la morigeratezza: dunque non confliggono con quelle della Chiesa. Pertanto, chi esula dalle regole – l’omosessuale, l’onanista, la meretrice, la fedifraga – rappresenta un problema, talvolta da “curare”. Il valore della verginità viene inculcato nelle ragazze fin da piccine, il celibato dei maschi è visto come occasione di libertinaggio, dunque pericoloso anche per la salute.

Il melodramma risente di queste impostazioni ideologiche, e se da un lato sottolinea la purezza dei sentimenti, dall’altro deve però fare i conti con una realtà ben diversa. Se nel 1844 Verdi proclama che “le donne puttane non mi piacciono in scena”, nove anni dopo con La Traviata elegge a protagonista una prostituta d’alto bordo. E per Rigoletto così scrive: “Bisognerebbe far vedere Gilda col Duca nella sua stanza da letto!! Mi capisci? In tutti i casi sarebbe un duetto. Magnifico duetto!! Ma i preti, i frati e gli ipocriti griderebbero allo scandalo”. Sul finire del secolo l’opera, ci dice Fornoni, va invece incontro a un “processo di sessualizzazione”. Negli anni in cui Puccini e Leoncavallo compongono i loro primi lavori, la scienza svolge un ruolo importante nell’interpretare la sessualità.

Sebbene la morale comune, e anche alcuni scienziati, considerino ancora l’atto sessuale condannabile se non è finalizzato al concepimento, c’è chi, come il medico Albert Moll, sentenzia che scopo dell’incontro carnale è innanzitutto il godimento. Nella società si diffonde il flirt, le nascite crollano, viene spesso praticato l’aborto (illegale). I palcoscenici mostrano personaggi femminili “intraprendenti nel gioco erotico”: la castità, la pudicizia del primo Ottocento evaporano, libido ed eros diventano caratteristiche prettamente femminili. Se in passato l’erotismo è gravato di precetti morali normativi, ora lo si esibisce, spesso peraltro attraverso una forma di alterità: va bene la sessualità manifesta, ma essa pertiene ai ceti inferiori. Wally, nell’opera omonima di Alfredo Catalani, e Nedda nei Pagliacci di Leoncavallo vengono viste dagli spettatori coevi come “portatrici di una sessualità degradata in quanto donne del popolo”. Pagine affascinanti dedica Fornoni alla drammaturgia di Puccini: Manon Lescaut, La Bohème, Tosca, La fanciulla del West mostrano tipi diversi di comportamenti erotico-sentimentali spinti, come non se n’era visti prima d’allora in scena. E mettono in luce varie forme di seduzione: nei duetti d’amore della Manon Lescaut e della Bohème un solo personaggio (rispettivamente femminile e maschile) prende l’iniziativa: non così in Tosca, che “propone una condivisione paritaria della seduzione”. E ciò ha le sue sonanti ricadute in musica.

Con tutto questo non si creda che l’erotismo nell’opera abbia seguito una traiettoria uniforme nei secoli, da un atteggiamento più repressivo ad uno più scollacciato. Niente di più errato. Il Settecento, secolo squisitamente libertino, fu molto più incline al brivido della seduzione erotica che non l’Ottocento borghese. Quanto al Seicento, il “vizio di Venere” fu spacciato in tutte le salse e in tutte le varianti, vuoi allusive vuoi plateali. Un esempio per tutti. Nella Finta pazza di Giulio Strozzi e Francesco Sacrati (1641), un’opera che letteralmente fece il giro d’Italia, Licomede re di Sciro esorta Ulisse, Achille e gli altri eroi greci in procinto di salpare per la guerra in Asia minore con parole tutt’altro che oscure: “A Troia, amici, a Troia”. E qui non si allude alla città: in teatro, si sa, le maiuscole non si sentono…

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