In questo giugno torrido e afoso, con temperature mai toccate prima, almeno in Italia in questo periodo, è tempo di bilanci. Cinquant’anni fa, infatti, si teneva la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente, dove si lanciavano i primi allarmi sui limiti dello sviluppo. Trent’anni fa, invece, dopo la formazione dell’Ipcc, l’organo che si occupa di clima per l’Onu, ci fu la Conferenza su clima di Rio de Janeiro. La prima delle 26 Cop che si sono tenute nel mondo, mentre la prossima sarà a novembre in Egitto.

Allora, cioè a Rio, come nell’ultima Conferenza, ci fu una grande copertura mediatica. A Rio si arrivò all’accordo sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che alcuni anni dopo portò al protocollo di Kyoto, con primi, stringenti, obblighi di riduzione delle emissioni per i paesi aderenti. Altre tappe importanti negli anni successivi furono senz’altro l’Accordo di Parigi, con il vincolo per i paesi del mondo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livello preindustriali. Altri accordi sono stati poi presi in questi anni dalle successive Cop.

Nell’ultima, ad esempio, si è stabilito che per non sfondare il tetto del grado e mezzo occorre dimezzare le emissioni nel prossimo decennio e azzerare le emissioni di carbonio entro il 2050. I paesi devono aggiornare i Contributi determinati a livello nazionale (NDC), accelerando la transizione verso l’energia pulita, veicoli a zero emissioni, protezione e ripristino della natura. Inoltre, si è parlato dell’importanza dei finanziamenti ai paesi poveri, che più soffrono degli impatti sul clima (100 miliardi).

Fari sulla Cop, poi il nulla per un anno

Numerosi sono stati i fallimenti delle varie Cop che si sono succedute negli anni. Tuttavia, va detto che mettere d’accordo la quasi totalità dei paesi del mondo, con livelli di sviluppo differenti e esigenze differenze, è un compito veramente arduo, di qui la sensazione dei continui fallimenti (pensate a quanto sia difficile mettersi d’accordo su una bega condominiale). Ma non tutto lo è stato, anzi e migliaia di persona hanno lavorato duramente.

Forse il punto è invece un altro e dovremmo averlo capito: non si può devolvere alle Conferenze sul clima il compito di risolvere tutti i nostri problemi climatici. Se nel frattempo la temperatura ha continuato a crescere, in alcune aree, come l’Italia, raggiungendo e superando il grado e mezzo, se gli effetti delle devastazioni della crisi sono sotto gli occhi di tutti, tra siccità spaventose che rischiano di mettere in ginocchio anche paesi ricchi, alluvioni, desertificazioni, incendi sempre più estesi e sempre meno domabili, la responsabilità non va certo buttata unicamente sulle spalle delle varie Cop, che semmai sono la conseguenza, non la causa, di un sistema che non vuole cambiare.

Il problema è ciò che sta in mezzo quegli appuntamenti annuali, di cui si parla pienamente salvo poi dimenticarsene il giorno dopo, quando dovrebbero rappresentare il filo rosso costante del racconto mediatico per i successivi 365 giorni. A che ci servono infatti quotidiani e tv che coprano in maniera impeccabile l’evento, salvo poi non occuparsi mai di quel tema – i negoziati climatici, la crisi climatici, gli impegni dei paesi etc – per tutto il resto del tempo?

Stesso, d’altronde, fa la politica, che ormai fa di queste conferenze un’occasione per mostrarsi al pubblico e far vedere l’impegno del proprio governo sul clima. Bene ma poi? Tutti ricordiamo la folta delegazione italiana all’ultima Cop, a partire dal ministri Cingolani. Ha più parlato, il ministro, e solo per fare alcuni esempi, della scorsa Cop? Del fatto che non stiamo rispettando l’accordo di Parigi? Ma soprattutto dell’urgenza radicale della decarbonizzazione, ma anche dell’uscita dal petrolio e dal gas? Nell’ultimo rapporto Ipcc, sul quale non è stato fatto dal ministero neanche uno stringato comunicato?

La necessità di fare un bilancio. E dire la verità

In questi giorni in cui una violenta ondata di calore si è abbattuta sull’Italia, ci sarebbe quanto meno da aspettarsi che un ministro della Transizione ecologica si pronunciasse su quello che l’Italia sta facendo o no. Senza nascondere la gravità della situazione in cui ci troviamo, perché le ondate di calore non sono casuali, anzi, sono destinate ad aumentare di intensità proprio in relazione alla mancata riduzione delle emissioni, con enormi conseguenze su turismo, agricoltura, sicurezza idrica, sofferenza delle persone, specie povere e fragili, biodiversità e molto altro. Il silenzio della politica resta invece assordante, anche se Cingolani non è certo l’unico ministro della transizione a tacere.

Allo stesso tempo, sarebbe onesto che, a trent’anni da Rio, lo stesso ministro facesse un bilancio di quanto fatto e quanto non fatto, ammettendo i fallimenti e soprattutto le sofferenze causate da quei fallimenti. Sarebbe anche una sorta di obbligo morale, perché le persone hanno il diritto di essere informate della condizione in cui ci troviamo.

Perché invece non si fa? Forse perché, ancora, si teme di mette in crisi un sistema economico, un modello di sviluppo che non si ha il coraggio, né l’intelligenza di cambiare? Ma se quel modello non si vuol scalfire – i paesi ricchi non vogliono cambiare stile di vita, gli emergenti voglio raggiungere proprio quello stile di vita – che senso la fatica immane della negoziazione durante le Cop per raggiungere obiettivi che poi non vengono rispettati? Le conferenze sul clima dovrebbero rappresentare il punto di inizio di un dibattito pubblico sui temi climatici, che sarebbe certamente importante e appassionante, per tutto l’anno a seguire. Non rappresentare, appunto, eventi fini se stessi. Ovviamente, i negoziatori continuano a lavorare anche nei mesi successivi, con incontri intermedi fitti. Ma ciò a cui io mi riferisco è un dibattito pubblico-politico che dovrebbe accompagnare quegli eventi. E che spingerebbe poi i negoziati più in alto, oltre che fa sì che i cittadini possano in qualche modo controllare quello che i governi fanno per attuare quanto raggiunto.

Insomma, se quasi trenta conferenze sul clima non hanno arrestato la corsa della CO2, così come tutte le sue tremende conseguenze, non vuol dire che abbiano fallito. O meglio. Vuol dire che hanno fallito ma non da sole. Insieme alla politica, ai media e in generale tutte quelle parti della società, le più ricche, che hanno in mano le leve del cambiamento ma, nonostante il rischio concreto di estinzione, parlano di clima e transizione ecologica salvo poi proseguire “business as usual”. Esattamente lo scenario in cui, secondo i climatologi, e nonostante una timida riduzione delle emissioni da parte di alcuni paesi, tra cui l’Europa, sostanzialmente – dopo trent’anni – ancora ci troviamo.

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